Gli Ebrei della Giudecca di Nicastro e dell'entroterra del Reventino
Dobbiamo respingere il pregiudizio di coloro i quali affermano che non si possa parlare di presenza ebraica nei centri dove non esistono documenti scritti a confermarlo. Basti per costoro la risposta di un’autorità assoluta come Lucien Febvre: “La storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare e si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con le erbe cattive. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi dei metalli fatte dai chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell’uomo, significa la presenza, l’attività, i modi di essere dell’uomo”.
Timpone: vista aerea (Lamezia Terme)
E' ampio, quindi, - come sostiene Jacques Le Goff - il repertorio dei ‘documenti’ su cui si esercita l’attività storiografica: “non più solo i segnali e i segni scritti che gli uomini vissuti nel passato hanno lasciato deliberatamente ai posteri come testimonianza di verità, ma anche e soprattutto le leggende che costoro tramandavano, le menzogne che hanno diffuso, tutto ciò che può essere interpretato come sintomo, persino i silenzi”. Per quanto riguarda il valore della tradizione basti quanto ha scritto il papa Joseph Ratzinger Benedetto XVI nel suo libro L’infanzia di Gesù per sostenere e “riconoscere una misura notevole di credibilità alla tradizione locale betlemmita” a proposito della nascita di Gesù a Betlemme. Scrive Ratzinger: “Spesso le tradizioni locali sono una fonte più attendibile che le notizie scritte”. Questa affermazione riguarda in modo particolare la storia degli ebrei in Calabria in quanto le notizie (specialmente quelle dirette) sono, come abbiamo già avuto modo di dire all’inizio, scarse e frammentarie per gran parte dei paesi che hanno ospitato comunità ebraiche fino al XV-XVI secolo. La storia della presenza ebraica non è stata ancora adeguatamente sviluppata in Calabria, anzi è rimasta quasi ai margini della storiografia. Per molte località è fatta solo di tracce labili, di indizi, di silenzi e di allusioni. Nicastro e il territorio del Reventino non si sottraggono a questa carenza di fonti dirette. Perciò la storia della presenza ebraica anche in quest’area bisogna ricercarla e ricostruirla a poco a poco, tassello dopo tassello, partendo anche dai silenzi e dal nulla, visto che la cacciata degli ebrei dalla Calabria ha determinato un totale oblio sulla loro presenza nella nostra regione. Bisogna dire però che, rispetto ad altre comunità calabresi (piccole e grandi) che vanno fiere di aver ospitato ‘colonie’ giudaiche anche senza averne la storia scritta, nel territorio del lametino qualche segno è reperibile. Partiamo da Nicastro. La presenza degli ebrei a Nicastro, allo stato attuale delle ricerche, è storicamente documentata nel XIII secolo, anche se non si può escludere che, come altre comunità giudaiche venute in Calabria e in Sicilia al seguito degli Arabi, essi vi si fossero insediati già tra la fine del IX e l’inizio del X sec. in concomitanza con le incursioni saracene di quel periodo, allorché nacque il primo nucleo abitativo denominato Musconà. La presenza ebraica a Nicastro però non è documentata in maniera estesa da nessuno degli storici, eruditi o cultori nicastresi più accreditati quali Maruca, Scaramuzzino e Pietro Ardito. Anche padre Francesco Russo nella sua Storia della diocesi di Nicastro ha ignorato la comunità ebraica nicastrese. Gli unici che accennano alla presenza ebraica a Nicastro, rifacendosi alla tradizione, sono Giacinto Montesanti e Pasquale Giuliani.
Timpone: ingresso
Il Montesanti, riferendosi al periodo normanno-svevo, scrive: “Nel medesimo periodo la venuta degli Ebrei in Calabria ne portò, anche fra noi, una piccola colonia la quale pose stanza in apposito ghetto: il Timpone”. A parte l’errato uso della parola ghetto, dal momento che in Calabria ghetti ufficiali non ne sono esistiti in quanto sono sorti altrove (dopo quello di Roma) quando gli ebrei erano già stati cacciati dal regno di Napoli, tuttavia la notizia fornita dal Montesanti sulla comunità ebraica stanziatasi al Timpone può costituire senza ombra di dubbio l’avvio certo di una ricerca. Più importante è però la testimonianza del Giuliani il quale, proprio in apertura della sua opera scrive: “Similmente sulla destra sponda del Canne era com’è tuttavia un agglomerato di case, ove è fama che ghetto fosse stato di ebrei; e che dal luogo sassoso e dirupato si è sempre nominato Timpone”. Come si vede, a parte queste due pur importantissime annotazioni, c’è stata una sorta di rimozione della storia della presenza ebraica a Nicastro per cui, a livello locale, non abbiamo una documentazione adeguata sui contributi culturali ed economico-sociali che pure gli ebrei hanno offerto alla comunità nicastrese come a tante altre comunità dell’Italia meridionale. Attorno alla presenza degli ebrei a Nicastro, che certamente è stata molto attiva, si è creata una sorta di concorde cortina di silenzio come nel resto della Calabria. Anche quando nei secoli XV-XVI si è levata contro di loro la voce della giudeofobia, anche dai pulpiti, la consegna non solo per gli uomini di chiesa, ma anche per intellettuali, artisti, cronisti, scrittori è stata quella di ignorare il problema della loro presenza. Di conseguenza si è venuta a determinare una secolare rappresentazione degli ebrei come un’appendice casuale e silente della società calabrese. Essi dovevano essere il meno visibili possibile, dovevano essere una piccola minoranza a cui veniva permesso di testimoniare la loro fede senza però recare disturbo alla comunità cristiana. Però la presenza ebraica a Nicastro, come nel resto della regione, non può essere letta nella sua autonomia in quanto, pur vivendo nella giudecca, per forza gli ebrei hanno dovuto avere rapporti con la ‘societas christiana’. Quindi, la comunità ebraica nicastrese non può essere stata realmente e totalmente autonoma da ciò che la circondava. Si tratta perciò non tanto di restituire voce ad una ‘appendice silente’, ma di mettere in discussione l’idea stessa che la comunità ebraica, piccola o grande che fosse, sia stata, rispetto al complesso della società, solo un corpo separato. Sarebbe opportuno, a tal proposito, accertare se siano rimaste nel locale dialetto significative parole ebraiche dei mercanti e dei banchieri e residui di tradizioni religiose anche perché questo potrà condurre ad evidenziare aspetti rilevanti della società calabrese alla quale gli ebrei hanno dato certamente una significativa impronta.
Un' altra motivazione non meno significativa della rimozione storica della presenza ebraica è che, vivendo emarginate e non partecipando alle vicende politiche della città, le comunità ebraiche non lasciavano tracce nella documentazione ufficiale dell’Università a parte i registri fiscali che erano ignorati dagli eruditi. Costoro, infatti, ricostruivano la storia dei paesi più sui miti che sui fatti realmente accaduti, mentre sappiamo che i registri fiscali sono fonti storiche preziosissime. Per quanto riguarda più specificamente l’inesistenza della storia della presenza ebraica nei testi degli storici e cronisti locali, essa è di obiettiva natura storica in quanto effettivamente, come abbiamo già detto, per la loro organizzazione e condizione giuridica, gli ebrei rappresentavano un elemento del tutto appartato, anche se inglobato, nella storia della città. Perciò, non solo nessun documento diretto ricorda l’origine dello stanziamento ebraico a Nicastro, ma nemmeno per i secoli successivi erano disponibili documenti cui gli storici ottocenteschi che abbiamo citato potessero attingere. Non bisogna dimenticare, infine, che quando fu decretata l’espulsione degli ebrei, chi decise di rimanere convertendosi al cristianesimo era costretto ad una omologazione che non lasciava possibilità di deroghe, anche per il ferreo controllo dell’Inquisizione il cui obiettivo era quello di rimuovere dalla memoria collettiva anche il solo ricordo della presenza ebraica. Ricordiamo che Pio V con la Bolla Hebraeorum gens del febbraio 1569, in cui si favoriva l’istituzione dei Monti di pietà per sottrarre i cattolici dalle usure degli ebrei, ordinava non solo la cacciata degli ebrei da tutte le terre dello Stato Pontificio, ma anche la distruzione di tutto ciò che potesse ricordare l’esistenza di una presenza ebraica, compresi i cimiteri. “Fece abbruciare anche ventimila copie del Talmud”. Le conseguenze di questa Bolla antiebraica si fecero sentire anche nel resto d’Italia tanto che in molti paesi gli ultimi ebrei rimastivi abbandonarono le sedi, portandosi dietro anche i resti dei loro morti.
Pietro Terracina e Vincenzo Villella
Il silenzio degli storici, dunque, per tutte le suddette motivazioni, come per altri paesi della Calabria, non è una prova della mancata presenza ebraica al Timpone di Nicastro. Chi si occupa di storia sa benissimo quanto sia sbagliato supporre che non sia mai esistito ciò che non viene menzionato nei documenti e nella tradizione o che viene citato in modo poco o per nulla dettagliato. È sintomatico, a tal proposito, che Gabriele Barrio (1506-1577), lo storico calabrese di Francica, che visse nello stesso periodo in cui gli ebrei furono espulsi dal regno di Napoli e dalla Calabria, non abbia dedicato loro nemmeno una parola. Come per altri siti ebraici calabresi, dove allo stato attuale delle ricerche archivistiche la mancanza di fonti non consente di sostanziare quanto tramandato dalla memoria orale, anche per la giudecca di Nicastro la carenza del documento scritto non può costituire la prova provata della sua non ubicazione al Timpone. Quindi, la mancanza di oggettivi ritrovamenti archeologici e materiali non vieta di ubicare il quartiere ebraico ove la memoria lo ha sempre collocato. Del resto sono tantissimi i quartieri ebraici sia in Sicilia che in Calabria dove a tutt’oggi non è stato possibile, a conferma della tradizione, reperire tracce di sinagoghe, bagni rituali, mattatoi e cimiteri o altri manufatti di archeologia della vita quotidiana. Perciò anche a Nicastro, come in altri paesi della Calabria, allo stato attuale delle ricerche, la presenza ebraica trova testimonianza innanzitutto nel nome del quartiere “Timpone” detto judeca tramandato dalla memoria popolare. La tradizione, quando non è del tutto immaginaria, ha sempre un nucleo di verità utile per la ricostruzione degli avvenimenti storici. È da verificare perciò anche la notizia che nello stesso centro storico sotto il castello ci fossero due strette vie ricordate come via della Giudecca e vico 1° Giudecca. Comunque è certamente importante il fatto che nel museo archeologico di Lamezia nella sezione medioevo ci sia fin dal 1997, anno di inaugurazione della struttura museale, un pannello intitolato “La comunità ebraica di Nicastro” con foto e didascalie del rione Timpone ove, secondo la Sovrintendenza, era sorto l’insediamento ebraico. A smentire chi ha sostenuto che quanto asserito nel pannello non fosse vero in quanto “non si riscontra nella pubblicistica locale o in altri scritti precedenti gli anni 1997 e 2001, alcun cenno relativo al Timpone come giudecca” e che, quindi “è facile ritenere che l’opinione più recentemente diffusa abbia avuto origine da quanto erroneamente asserito nel testo sopra citato”, per cui bisogna “sgomberare il campo dalle fantasie che da qualche tempo accreditano il rione Timpone come sede storica di ebrei dal XIII al XVI secolo”, riportiamo in sintesi un articolo del giornalista nicastrese Antonio De Sarro pubblicato nel 1987, ossia ben dieci anni prima dell’apertura del museo. “E fuor di dubbio – scriveva nel 1987 il giornalista nicastrese Antonio De Sarro – che in Nicastro e in Zangarona (che un tempo era comune autonomo) vi siano state comunità giudaiche in quanto ancora il quartiere Timpone viene indicato dal popolo come ‘a Judeca’ (la Giudecca), mentre a Zangarona esiste una via che si chiama pure Judeca”. De Sarro nel suo articolo scrive che gli ebrei, appena giunti a Nicastro, si stabilirono nei pressi del castello, e precisamente sulla sponda destra del torrente Canne, dove usarono come locali abitativi alcune grotte “in parte esistenti alcuni decenni fa”. Poi avrebbero occupato la parte opposta del torrente “che era una zona molto ripida (timpa) e vi costruirono alcune casupole, dando così origine al rione Timpone, cioè luogo irto, ripido”. De Sarro scrive ancora che “a Nicastro oltre il 10% della popolazione era di origine ebrea” e che “la loro presenza ha contribuito a dare alla popolazione una spinta verso il lavoro ed il benessere”. “Essi – aggiunge – praticavano l’usura ed erano anche esperti nella tessitura e nella tintoria, nonché nella lavorazione del ferro ed in piccole attività di compra-vendita e di scambio di merci di prima necessità, attività queste che ancora si praticano nella zona con notevole successo. […] Insomma essi riuscirono ad inserirsi nel tessuto cittadino sino a divenirne l’elemento più vitale. La presenza degli ebrei in Nicastro ha molto favorito la popolazione indigena scuotendola dal suo atavico torpore e spingendola verso il lavoro senza badare troppo alle differenze di classe”. “Nella diffusione del pensiero mistico ebraico – conclude De Sarro – Nicastro ha rivestito una grande importanza per la sua centralità geografica nel contesto del bacino del Mediterraneo, tant’è vero che certamente dalla nostra città sono transitati molti pensatori illustri che hanno percorso la Calabria in lungo e in largo. Fra questi potrebbero esserci stati Ben Shimmel di Acri e Josef Vital, calabrese, cabalista e rabbino di Gerusalemme (detto Calabrese per l’origine della sua famiglia) che fu discepolo di Yishaq Luria”.
Il pregiudizio nei confronti degli ebrei in tutti i paesi in cui essi si insediarono non li rendeva meritevoli di essere ricordati in altro modo che come usurai e basta. Dovevano essere senza storia, non dovevano lasciare tracce nelle memorie patrie. Tollerati, ma mai integrati, utilizzati, ma sempre guardati con sospetto e avversione. Come per altre comunità giudaiche calabresi non siamo in grado di quantificare il peso economico e demografico di quella di Nicastro. A dire il vero è un problema aperto anche per le giudecche della Sicilia dove gli studi sulla presenza ebraica sono molto avanzati rispetto alla nostra regione in cui purtroppo le ricerche sono ancora agli esordi. Perciò non sappiamo di preciso quanti fossero nella judeca di Nicastro. Certamente non erano solo pochi ‘fuochi’ se un intero quartiere veniva identificato con loro. Come in altri “stanziamenti” calabresi anche a Nicastro gli ebrei hanno certamente rivestito un ruolo economico-sociale che è doveroso mettere in luce, eliminando i pregiudizi storici, sedimentati nella nostra cultura, che non li hanno resi degni di essere ricordati positivamente, ma solo come erranti e responsabili della crocifissione di Gesù Cristo. Dappertutto detestati e ricercati, vittime di persecuzioni, ma anche lusingati sia dall’università che dai vescovi che si contendevano le cospicue tasse che essi dovevano pagare, gli ebrei hanno avuto una presenza determinante nella società nicastrese per alcuni secoli. Sarebbe più che mai auspicabile uno studio più ampio e completo su di loro così come sugli albanesi insediatisi nel nostro territorio e, quindi, sulla coesistenza delle tre diverse comunità etnico-religiose: cristiani, ebrei, albanesi. Ma a chi interessa? Sia gli ebrei che gli albanesi non arrivarono qui con eserciti conquistatori come i bizantini, i normanni, gli svevi, gli aragonesi, gli arabi, i francesi. Anche per questo non è stata documentata dagli storici coevi la complessità delle relazioni degli ebrei con le nostre comunità. Il nostro è un lavoro pionieristico su un terreno mai esplorato prima. Si tratta di un primo approccio, di una ricerca da proseguire anche per dare la giusta valenza storica alla parte più antica di Nicastro e valorizzarla dal punto di vista del turismo culturale. Vediamo, allora, quali furono i rapporti degli ebrei col territorio nicastrese con l’ausilio delle poche fonti disponibili. Come dicevamo, la presenza più antica di ebrei documentata a Nicastro risale al XIII secolo al tempo degli svevi e, in particolare, sotto Enrico VI di cui abbiamo già sottolineato la politica di accoglienza nei loro confronti. Partiamo da Oreste Dito, ritenuto a ragione “la più autorevole fonte storica di questioni ebraiche calabresi” e dalla cui opera perciò – come afferma Pietro De Leo - prendono avvio tutti gli studi sulle comunità ebraiche calabresi. Il Dito è stato fino agli anni più recenti l’unico storico calabrese che si sia interessato delle vicende delle comunità ebraiche in Calabria. La sua opera, che risale ormai a più di 90 anni fa, è stata definita da Gaetano Cingari “di grande dignità storiografica”. Essa – ha sostenuto ancora Cingari – “non si raccomanda solo per le sue indagini specifiche sulla dimora sul suolo calabrese di una minoranza etnico-religiosa, ma per avere il merito di aver centrato un tema di particolare interesse storico”. Dito cita Nicastro tra le comunità giudaiche presenti in Calabria nel XIII secolo. Dice testualmente: “Catanzaro, favorita dalla stessa posizione, in facile comunicazione coll’Ionio e col Tirreno, era il centro di maggiore importanza industriale e di maggiore traffico degli Ebrei dell’uno e dell’altro litorale. Altri stanziamenti erano a Nicastro, Monteleone, Tropea, Nicotera, Seminara, nelle due piane di S. Eufemia e di Palmi. Nella zona montuosa dell’estremo lembo di Calabria sono ricordati centri giudaici ad Arena, a Galatro vicino al Mètramo, e a Tritanti, frazione del comune di Maropati”.
Monile con stella di David (Serrastretta)
Il Dito, come si vede, a proposito degli ebrei presenti a Nicastro, parla di “stanziamento” come per gli altri centri di Monteleone, Nicotera, Seminara e Tropea. Come risulta dai registri della Cancelleria Angioina, gli ebrei di Nicastro, insieme ad altre comunità pugliesi (Brindisi, Nardò, Melfi, Taranto), campane (Napoli, Sorrento, Amalfi, Salerno) e calabresi (Monteleone, Nicotera, Seminara, Reggio, Gerace, Cosenza, Acri, Bisignano, Castrovillari, Rossano) pagavano nel 1276 l’imposta per la distribuzione della nuova moneta della zecca di Brindisi, detta anche ‘gabella judaica’. Nicastro non sarebbe stata inserita in questo elenco se la presenza ebraica vi fosse stata inconsistente, ossia composta solo da poche persone. Era, dunque, una “piccola colonia”, come sostiene il Montesanti, ma significativa dal punto di vista fiscale. C’è da credere però che lo stanziamento ebraico di Nicastro fosse superiore a quanto emerge dalle fonti fiscali che sono giudicate parziali rispetto alla reale consistenza dei contribuenti. Infatti è stata giudicata parziale, come fonte storica a fini demografici, la Taxatio generalis subventionis in justitiariatu Calabriae (1276) in cui è registrata la colletta che, come abbiamo già visto, le comunità giudaiche, compresa quella di Nicastro, pagavano alla corte. Anche nel 1278 gli ebrei di Nicastro compaiono nella Cedula di tassazione generale nel Giustizierato di Calabria per la metà dell’annuale sovvenzione dovuta pari a 4 tarì e 6 grana. Se si dovesse, fra qualche secolo, in assenza di altri dati certi per una malaugurata distruzione degli archivi, calcolare approssimativamente la popolazione di Lamezia Terme in base al numero di coloro che hanno pagato regolarmente alcune tasse (ICI, smaltimento rifiuti, acqua, etc.), senza tener conto dell’altissimo numero di evasori e di esenti, la città certamente non risulterebbe la terza della Calabria per numero di abitanti. La judeca di Nicastro, sorta tra i torrenti Barisco e Canne, può essere identificata, come anche la tradizione locale conferma, col rione Timpone. Il toponimo Timpone lo ritroviamo, come antico quartiere ebraico, in altre località della Calabria. A Santa Severina, come abbiamo visto, è ricordato proprio il “Timpone delli Judei”. A Conflenti, dove agli inizi del sec. XVI si rifugiarono sia ebrei che albanesi, si conserva sia il toponimo Timpone a Conflenti Sottani che quello di Timpa (Timpa d’i cani) a Conflenti Soprani. Con l’epiteto ‘cani’, come diremo meglio più avanti, erano ricordati a Conflenti gli ebrei insediatisi nella parte alta e rocciosa del paese. A Martirano è ricordato il toponimo ‘Timpa di Sassa’. Era il costone roccioso, sgretolato dal terremoto del 1783 e successivi, a ridosso del quale si era insediata una piccola comunità ebraica che ha lasciato traccia nella odierna via della giudecca. Il Timpone della Motta, come luogo degli ebrei, è ricordato anche a Francavilla Marittima. A Nocera Terinese è testimoniato il toponimo ‘Timpa delli Rindelli’ e c’è chi lo associa ad una presenza ebraica. Stessa cosa nella frazione Diano del comune di Scigliano, a circa un chilometro dal centro abitato, dove c’è, a partire dal XVI secolo, sulla roccia sovrastante il fiume Bisirico, la chiesetta della Madonna della Timpa. A Castiglione Marittimo è ricordato ancora oggi il Timpone come luogo degli ebrei. Anche a Cassano c’è chi collega alla presenza ebraica il Timpone Rosso ad un km dal centro abitato, che potrebbe identificarsi con la Pietra del sangue che nel medioevo segnava l’ingresso nel territorio di Cassano. Sappiamo che la collocazione geografica delle giudecche in Calabria rispondeva di volta in volta ad una logica. Così alcune giudecche più grandi sorsero nelle città principali come Reggio, Cosenza e Catanzaro, mentre altre si situarono in prossimità delle linee di comunicazione più importanti. Per quanto riguarda Nicastro, la scelta di questo sito rispondeva, oltre che a ragioni di facile accessibilità e di sicurezza, anche e soprattutto a precise esigenze rituali in quanto gli ebrei consideravano le fonti d’acqua dolce come luoghi di epifania, collegate com’erano alla purificazione rituale per immersione. Per la cultura semitica le acque dolci sono considerate favorevoli all’uomo in contrapposizione alle acque salate e, quindi, al mare ritenuto un luogo abitato da presenze negative (si pensi al Leviatano, il mostro biblico immane e distruttore, o alla balena che inghiotte Giona). Non poteva mai sorgere perciò una judeca sulla sponda del mare in quanto le sue acque salate, per via del loro ruolo contrario alla vita in quanto in esse non ci si può abbeverare, erano un elemento nemico.
La piccola judeca di Nicastro, oltre che essere circondata dai due torrenti, poteva sfruttare anche alcune sorgenti d’acqua che garantivano l’approvvigionamento idrico. Certamente, proprio per l’abbondanza dell’acqua disponibile, era possibile creare il miqwéh, ossia la vasca per il bagno di purificazione rituale (il cosiddetto bagno della judeca). Il bagno rituale era riservato esclusivamente alle donne. Esse erano tenute a purificarsi mensilmente, dopo ogni loro ricorrenza, nonché alla vigilia del matrimonio e dopo il parto. “I luoghi destinati per la purificazione delle donne dopo il loro mestruo non mancavano in veruna comunità, qualunque essa fosse, o delle più ragguardevoli o di minor conto”. Il bagno “era destinato a questo fine solamente ed a null’altro”. Doveva avere una precisa caratteristica e cioè “che l’acqua non vi si porti a braccia, ma che venga da sé, come o per pioggia o per fontana; che per lo meno abbia tre braccia d’altezza; che la donna in fine vi s’immerga tutta”. Inoltre c’è da aggiungere che, a dispetto dell’insulto ‘sporco giudeo’ rivolto agli ebrei, la religione ebraica imponeva precise norme igieniche che erano molto importanti in tempi in cui l’igiene lasciava molto a desiderare. La pulizia che l’ebreo religioso faceva sulla sua persona alla vigilia del sabato e nella stessa abitazione, unita alle altre consuetudini rituali di purificazione, conferma che nelle judecche i servizi igienici erano più sviluppati di quelli del resto delle città ospitanti. Ciò è dimostrato, fra l’altro, dal minore tasso di mortalità degli ebrei delle giudecche e dalla inesistenza o scarsa incidenza di epidemie come quelle di colera, invece ricorrenti in ogni città. La presenza copiosa dell’acqua, al di là della sua utilizzazione rituale, soprattutto al Timpone di Nicastro garantiva in ogni stagione dell’anno la massima pulizia per gli abitanti della judeca. Essi, infatti, avevano un rapporto continuo di purificazione con l’acqua. Così, ad esempio, quando andavano alla sinagoga “prima d’entrarvi sogliono lavarsi le mani a certe fonti che a questo effetto ivi si trovano”. “Stimano gli ebrei peccato gravissimo entrare alla mensa e mangiare il pane anche in minima quantità se prima non si sono lavate le mani”. Nella festa delle espiazioni i capifamiglia uccidevano un gallo come espiazione delle loro colpe e poi “costumano lavarsi ne’ fiumi ovvero ne’ bagni”. C’erano poi anche delle credenze particolari che costringevano ad un uso continuo dell’acqua come quella riportata dall’ex rabbino Niccolò Stratta: “Ritengono che la notte, mentre dormono, abiti nelle loro mani lo spirito immondo (chiamato da essi ruachrang) e per questo la mattina, prima di lavarsi, non si toccano alcuna parte del corpo temendo restare ciechi o sordi se si toccassero gli occhi o le orecchie e il simile dicono delle altre parti del corpo. Quando si lavano, gettano prima tre volte acqua nella mano destra e tre volte nella sinistra; e in questo mentre una mano non tocca l’altra perché dicono che, essendo ella immonda per cagione dello spirito immondo che abita in essa, renderebbe immonda quell’altra mondata già dall’acqua che hanno versato. Aspettano pertanto che prima la destra e poscia la sinistra abbia avuto tre volte l’acqua e allora si lavano il volto con ambedue”. Nicastro nel XIII secolo era città demaniale, non sottoposta ancora a nessun barone, ma dotata di un proprio autonomo ordinamento municipale. Gli storici degli insediamenti ebraici sostengono che era naturale e quasi scontato che gli ebrei, considerati “servi della regia camera”, avessero una particolare propensione ad insediarsi in centri appartenenti al regio demanio. In Sicilia, ad esempio, l’80% degli ebrei risiedeva nelle città regie demaniali. D’altra parte la stessa corte viceregia si dimostrava interessata a favorire la presenza giudaica nei luoghi di regio demanio. A Nicastro in questo periodo affluirono genti da ogni parte, facendo crescere il numero degli abitanti. Scrive il Giuliani: “Dalla venuta del Normanni fino alla caduta della dinastia degli Svevi fu epoca di vero progresso per la città nostra; e già all’epoca angioina la sua popolazione giungeva a 1656 fuochi. Come città demaniale e popolosa, sita in territorio vasto e fertilissimo, in vicinanza del mare, a poca distanza dall’unica strada consolare, la sua residenza rendevasi cara e ricercata…”.
Volume Giudecche di Calabria (V. Villella))
Per la sua caratteristica conformazione, la judeca di Nicastro era un quartiere naturalmente chiuso e appartato, circondato com’era dai due corsi d’acqua (Barisco e Canne) che costituivano una sorta di difesa naturale per cui non c’era bisogno di mura di cinta. L’entrata unica doveva essere dal basso verso l’alto. Anche per le limitazioni che le venivano imposte dall’esterno, ogni comunità ebraica era come una entità autonoma, luogo cittadino ben definito, una vera e propria istituzione extraterritoriale nel paese in cui era stanziata, con i suoi usi, i suoi costumi, le sue leggi, i suoi privilegi. Per quanto riguarda la sinagoga, in aggiunta a quanto già detto in precedenza, dobbiamo aggiungere che non solo si trattava di una semplice abitazione a piano terra, adibita a luogo di culto e di incontro comunitario, e non già di un edificio progettato e appositamente costruito dal nulla come sinagoga, ma, come quasi tutte le case del Timpone, era eretta direttamente sulla ‘timpa’ e, quindi, senza fondamenta. Nessuno può negare che, alla cacciata degli ebrei il locale possa essere stato prima riutilizzato come magazzino o come abitazione e poi demolito del tutto e sul nudo suolo nel ‘700 sia stata eretta ex novo la chiesa di S. Agazio. È evidente, quindi, che sarebbe risultato velleitario, come in effetti è stato, per chi è andato alla ricerca della prova archeologica della sinagoga, trovarvi i resti del pavimento, magari con un mosaico come quello della sinagoga di Bova Marina (che è del IV secolo e, quindi, sorta in tutt’altro contesto storico non avverso agli ebrei della diaspora) o di altri resti identificativi della presenza ebraica. E, infatti, gli scavi effettuati nel corso del recente restauro della chiesa, come ha dichiarato l’archeologo Eugenio Donato, “sembrano escludere la presenza di fasi medievali o più antiche”. Stesso discorso vale per il bagno femminile e per il macello. È certo, comunque, che la mancanza della prova archeologica non è un motivo valido per negare la tradizione. Come la ragione non può eliminare ciò che non riesce a raggiungere, allo stesso modo l’archeologia non è abilitata ad escludere una presenza storica, ma semmai a confermarla. La judeca di Nicastro per la sua posizione geografica, come già ricordato nello scritto di De Sarro, ha potuto costituire un punto di riferimento e di ospitalità per gli ebrei di passaggio che, specialmente in periodi di persecuzione, si spostavano da sud verso la Calabria settentrionale. Ricordiamo che durante le rivolte (1444 e 1458-59) del viceré Antonio Centelles, marchese di Crotone, contro la monarchia, che coinvolsero direttamente anche il territorio nicastrese, gli ebrei si schierarono col re e contro il conte Caracciolo di Nicastro schierato a fianco del Centelles, suo cognato. Anche gli ebrei di Catanzaro presero le parti del re contro il Centelles, ottenendo in seguito come premio di dipendere direttamente dalla Regia Camera e di poter seppellire i loro morti anche durante la settimana santa. La judeca di Nicastro agli inizi del ‘500 figura, ormai solo con alcuni nuclei familiari, nell’elenco delle judeche di Calabria Ultra contenute nel registro fiscale del tesoriere provinciale Tommaso Spinelli (1502-1503). Le judeche registrate in questo importante documento sono quelle di Bova, Grotteria, Gerace, Motta S. Giovanni, San Lorenzo, Condoianne, Oppido, Sant’Agata, La Torre di Bruzzano, Bruzzano, Motta Bovalina, Brancaleone, Bianco, Pizzo, Rocca d’Angitola, Castelmonardo, Francavilla, Santa Eufemia, Nicastro, Belcastro, Stilo, Gioia, Melicuccà, San Giorgio, Terranova, Borrello, Rosarno, Bagnara, Pentedattilo. La judeca di Nicastro, come tutte le altre, estremamente assottigliata, dovette essere abbandonata dagli ebrei in seguito alla prammatica di espulsione del 1510. Non tutti però lasciarono il territorio circostante. Un gruppo trovò accoglienza e sistemazione a Zangarona, villaggio di origine albanese, dove si conserva ancora oggi una ‘Via della Giudecca”. Altri cercarono rifugio nelle zone interne, al di là del monte Reventino, nella valle del fiume Salso in territorio di Martirano e di Conflenti Soprani. Testimonianze della loro presenza sono ricordate dalla tradizione e dalla toponomastica, essendo i nomi di luogo tenacemente conservatori, proprio a Conflenti, Martirano e Serrastretta. In particolar modo Conflenti Soprano, piccolo casale della contea di Martirano, luogo di rifugiati e di profughi, offriva tutti i requisiti che consentivano agli ebrei di poter continuare a mantenere la propria identità, a sostenersi reciprocamente, a praticare le proprie abitudini religiose e alimentari e ad esercitare le loro tipiche attività: località appartata, ricchezza di acqua. Per questo si insediarono sulla riva destra del fiume dove, secondo la loro usanza, costruirono il loro piccolo cimitero, proprio perché l’acqua era l’elemento essenziale per la purificazione cui si sottoponevano, secondo il rituale ebraico, tutti quelli che partecipavano alla sepoltura dei defunti.
È importante ricordare che la comunità di Conflenti Soprani rimase isolata e appartata fin oltre la metà del ‘600. Fu, infatti, nel 1678 che il vescovo di Martirano Giacomo Palemonio fece costruire una via di collegamento tra i due centri. Pur essendo distanti meno di un miglio tra loro, le due comunità di Conflenti Sottani e Soprani sono state due entità diverse anche nella inflessione linguistica oltre che nelle attività e nel modo di vivere. Come abbiamo già accennato prima, il luogo in cui gli ebrei si insediarono a Conflenti Soprani è detto ancora oggi Timpa dei cani. Cani: uguale ebrei. Il toponimo conflentese, che si è conservato fino ai nostri giorni, è importante e non è esclusivo del luogo, ma si collega alla storia dell’antigiudaismo. San Giovanni Crisostomo nella prima delle sue omelie contro i giudei scriveva: “I giudei, chiamati ad essere adottati come figli, si sono abbassati alla condizione di cani”. E citava San Paolo (Filippesi III, 2-3): “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dai circoncisi. Siamo noi i circoncisi”. Nei Capitoli del Parlamento siciliano del 20 ottobre 1296, “felicemente regnando il re Federico II, figlio del Re Pietro d’Aragona”, il capitolo LXIII (Ut Neophiti non vocentur cani renegati) “specificamente riguarda la stima ch’aver si debba de’ neofiti, proibendosi sotto pene gravissime ch’alcuno ardisca chiamarli col titolo obbrobrioso di cani rinegati”. A Napoli fu definito “cane giudeo” il corsaro Sinam che nel 1533 con 22 galere sbarcò nella marina di Salerno “ove fe’ cattivi 300 Cetaresi de’ quali ne perirono di ferro più di trenta per non volernosi imbarcare”. Lutero aveva definito gli ebrei “cani assetati di sangue e assassini dei cristiani”. Ricordiamo poi la posizione di Pio IX il quale il 24 agosto 1871, davanti ad un gruppo della Pia Unione delle donne cattoliche di Roma, così parlava degli ebrei: “Or gli ebrei, che erano figli nella casa di Dio, per la loro durezza e incredulità, divennero cani. E di questi cani ce n’ha pur troppi oggidì in Roma e li sentiamo latrare per tutte le vie e ci vanno molestando per tutti i luoghi. Speriamo che tornino ad essere figli”. Un riscontro ancor più diretto dell’equivalenza ebrei-cani lo troviamo in un cosiddetto “contratto di condotta” di Ascoli Piceno. Come abbiamo già accennato, era usuale per i piccoli nuclei di ebrei che arrivavano in una località ottenere dalle autorità locali sia una regolamentazione economica del prestito a cui si dedicavano, sia norme che consentissero loro di vivere secondo i propri precetti e usi. Ciò avveniva attraverso i “contratti di condotta” ossia “gli strumenti attraverso i quali le autorità locali concedevano agli ebrei la possibilità di dimorare nel proprio territorio. […] Così sarà fino al Settecento inoltrato. Essi regolavano i termini della presenza del nucleo di ebrei, la possibilità di portare con sé famiglia e servitù, la possibilità normalmente concessa, anzi, scopo principale del contratto, di esercitare il prestito e le condizioni di uso”. Tra le regole sulla vita degli ebrei in tali contratti, “tipiche erano quelle sulla concessione di un macello rituale, allo scopo di conservare le proprie usanze alimentari kasher, di uno spazio per una sinagoga e di un cimitero, separato da quello dei gentili”. Proprio in uno di questi contratti relativo alla concessione di uno spazio da adibire a cimitero ad Ascoli, gli ebrei erano indicati come “le corpora maledecte de iuderi cani”. Il sito di Conflenti era oltremodo congeniale agli ebrei in quanto l’acqua abbondante dei ruscelli che lo circondano garantiva loro lo sviluppo di attività tipiche che sarebbero rimaste nella popolazione di Conflenti Soprani: conciatori di pelli, tintori, cestai, barilai, pettinai, lavoratori della cera e del miele. La tradizione dell’utilizzazione del miele per i tipici dolci chiamati mostaccioli è rimasta una caratteristica dell’artigianato tipico di Conflenti Soprani. In particolare a Conflenti Soprani fino agli inizi del XX secolo hanno operato alcune famiglie specializzate nella concia delle pelli con l’impiego del tannino, procedimento perfezionato e usato dagli ebrei. Questa attività, che doveva essere sviluppata anche a Nicastro dove ancora oggi nel centro strorico esistono il “Vico conciapelli” e un posto chiamato “arrìatu i conzi” (cioè dietro la conceria), comportava, ovviamente, la presenza di animali adatti alla fornitura della materia prima (capre, capretti, equini, ovini, vitelli) oltre che delle piante che fornissero il tannino. In zone come Nicastro nel periodo della presenza ebraica il tannino si ricavava, oltre che dalla corteccia della quercia, anche dalle foglie o dalla corteccia del mirto o mortella che cresceva abbondante nella piana di S. Eufemia. Invece a Conflenti lo si ricavava dalla corteccia della quercia, dal legno di castagno e dalle noci di galla. Furono gli ebrei, inoltre, a introdurre anche nei paesi del Reventino la coltura del gelso (avviata nel resto della regione già dai Bizantini) e la lavorazione della seta. Era la conferma che la costrizione ad emigrare aveva abituato gli ebrei a ricominciare da capo le loro tipiche attività ogni qualvolta erano cacciati dai luoghi dove le avevano intraprese.
Vicolo Timpone
Tutto l’entroterra divenne un capillare supporto integrante del ciclo dell’arte della seta che aveva a Catanzaro il centro di riferimento per la vendita. Questo contribuì certamente a trasformare profondamente una parte del paesaggio e a sollevare l’economia dell’intero comprensorio montano e collinare, dove, durante tutto il medioevo e anche dopo, essa era esclusivamente silvo-pastorale. Il paesaggio, non solo sulle alture, ma anche nella piana di S. Eufemia, aveva un’impronta selvatica. Si sfruttavano le terre incolte (bosco, pascolo naturale, palude) aree che, dopo la crisi economica e demografica del periodo tardo-imperiale, si erano allargate ovunque. La società rurale di allora, quando gli ebrei fuggiaschi si insediarono nei paesi più internati e riparati, era fatta di boscaioli, pastori e cacciatori più che di contadini. Scriveva il vescovo di Martirano Mariano Perbenedetti nella sua relazione ad limina del 1590: “Le anime che abitano in questa città e in questa diocesi sono circa diecimila. Di questi, benché vi siano alcuni ‘doctores et notarii’ e alcuni vivano civilmente, tuttavia quasi tutti sono agricoltori e pastori. Dal principio della primavera sino alla fine dell’autunno costoro vivono nelle selve ed abitano tuguri costruiti con paglia e fango, tanto che molti, sia adulti che bambini, muoiono senza sacramenti”. In una tale società di contadini-pastori-cacciatori, gli ebrei sistematisi nel territorio di Conflenti Soprani rappresentavano una cultura avanzata. Costituirono una comunità molto compatta e, contrariamente a quanto era avvenuto a Nicastro, solo inizialmente vissero appartati. Ben presto si integrarono con la comunità locale, abbandonando le usanze giudaiche e conformandosi a quelle cristiane. Grazie ai matrimoni misti con famiglie del luogo, persero col passare del tempo ogni resto delle loro usanze integrandosi pienamente nella comunità cristiana. I libri parrocchiali della chiesa di S. Nicola ne sono la conferma. È ricordata però ancora dalla tradizione l’usanza da parte di alcune famiglie di mangiare a Pasqua il pane azzimo (mazzah). La trasformazione del territorio ebbe come conseguenza un continuo incremento demografico. Da un esame dei libri parrocchiali della chiesa di S. Nicola, i più antichi dei quali risalgono all’inizio del XVII secolo, colpisce il fatto che esistano i cognomi Paola-Paula, Palermo, Stella, Bombino, Cimino, De Mayo, Napoli, Pagano, Deodato, Sacco e i nomi propri Davide, Moisé, Lisabetta, Giachino, Giansimone, Saullo, Jacobo-Giacobo, Sara, Emmanuele, Emmanuela, Miriam, Rachele, Adamo, Giosuè. Esistono ancora oggi alcune famiglie di artigiani col soprannome “I Brei”. Richiamano un soprannome che ritroviamo anche in documenti e atti notarili del XVIII e XIX secolo. Così nella banda del brigante Panedigrano c’era un Giuseppe Vescio, detto l’Ebreo. E fino agli ultimi anni del XX secolo operavano ancora industriosi artigiani del legno, della cera, del miele nonché esperti conciatori di pelle con il tannino. Famosi i mastri calderai e stagnini della famiglia Pasqua che si sono tramandata l’arte di generazione in generazione fino agli anni ’60 del XX secolo. Uno dei mastri si chiamava Pasqua Giosuè. La presenza di questi nomi e cognomi, aggiunta a quella di usanze e mestieri che rimandano all’ebraismo, è da considerare come prova dell’insediamento di una comunità ebraica. Una testimonianza importante sulla presenza degli ebrei al Timpone di Nicastro è quella di Pasquale Funaro (n. 1932), noto saggista e scrittore, autore del testo “La saga dei Cordero-Funaro” in cui ricostruisce la storia della sua famiglia di origine ebreo-sefardita. In un opuscolo intitolato “La Judeca di Nicastro. Una disputa dannosa” Funaro espone le sue considerazioni sulla polemica della esistenza di una judeca al rione Timpone di Nicastro. Si tratta di una testimonianza che rappresenta un contributo fondamentale e determinante per mettere la parola fine alla diatriba sulla esistenza e sulla ubicazione dell’antico quartiere ebraico al rione Timpone. Funaro, che si dichiara orgoglioso delle origini ebraiche sefardite della sua famiglia, non ha dubbi: nel quartiere Timpone è esistita a partire dal medioevo una comunità ebraica organizzata in Judeca. La sua convinzione si basa non solo sulla tradizione, ma soprattutto su notizie riguardanti direttamente la sua famiglia dei Cordero-Funaro di cui ha ricostruito la storia, anche in base a dei diari rinvenuti in casa di un suo antico avo e pubblicati nel libro “La Saga dei Cordero-Funaro”. “Il mio desiderio – esordisce Funaro – è quello di mettere con questa mia testimonianza un po’ di ordine nella vicenda, alla ricerca di una possibile e necessaria soluzione definitiva”. “Mi sono reso conto – continua – che nel rione Timpone c’è da tempo una questione controversa: una questione forse già esistente, ma riaperta da Giuliana De Fazio, le cui tesi erano state fatte proprie da Vittorio Pandolfo (vedi Storicittà, n. 150, marzo 2007)”.
Vittorio Pandolfo, da poco scomparso, condividendo le tesi della De Fazio, sosteneva che nel rione Timpone non era “mai esistita una giudecca ebraica” perché – a suo dire – “non esistono documenti storici e resti archeologici” e “per assoluta mancanza di tramandazione orale”. “Queste affermazioni – confessa Funaro – mi hanno provocato un fastidio mentale e molta amarezza, tanto che ho sentito il bisogno di intervenire”. Perciò, come prima operazione chiarificatrice, Funaro mette in luce “il difetto più grande” del libro della De Fazio (corredato da un appendice di Antonio Milano intitolata ‘Ebrei a perdere?’). Il difetto – dice Funaro - consiste nel fatto che il libro “si concretizza nella distruzione di un contenuto storico che, per quanto incerto e non ben definito, si è sedimentato da secoli nei ricordi degli antichi del luogo”. “I due autori – continua Funaro – sembrano abbandonarsi, con una certa acredine, ad una furia iconoclasta, distruttiva, soltanto per negare la presenza degli Ebrei nel rione Timpone della Nicastro di un tempo”. “Il fatto – dice ancora Funaro – mi ha colpito molto e ancora non mi rendo conto di quale sia stato lo scopo degli autori. È la cancellazione inopportuna di una memoria del luogo, un ulteriore salto nel buio, che potrebbe nuocere alla valorizzazione turistica della città di Lamezia Terme. Da spirito libero mi chiedo quale danno possa arrecare il ricordo di una presenza ebraica nel rione Timpone nella Nicastro di ieri e nella città di Lamezia Terme di oggi. Mi sono chiesto anche il perché di tanto livore. A chi giova?”. Chiariti poi, per non creare equivoci, i concetti e i significati di judeca, ghetto e sinagoga, Funaro respinge quella che lui chiama “l’agguerrita disquisizione di Antonio Milano su ‘dizione orale’, ‘tradizione orale’ e ‘oralità’ della Judeca di Nicastro. E rimprovera a Milano di non tener conto e di non dare nessuna importanza al “comune sentito dire” e ad una “pur molto vaga idea di memoria popolare”. Invece – sostiene Funaro – è proprio per questo “sentito dire” e questa “memoria popolare” se nel corso della storia di Nicastro si è tramandata l’idea della presenza degli Ebrei al Timpone. E ricorda le espressioni degli anziani:
"Un mio antico avo – dice – chiamato Francesco Antonio Funaro, ricco ebreo sefardita proveniente da Livorno, dopo aver lasciato la sua nave, venne a stabilirsi definitivamente a Sambiase, dove acquistò case e terreni. Prima di stabilirsi a Sambiase egli aveva commerciato, come suo nonno omonimo e suo padre Giovanni, per circa una quindicina d’anni con la sua nave nei porti della Calabria di allora (dal 1586 al 1600). […] Gli artigiani rimasti nel rione ‘Timpone’di Nicastro erano ex Ebrei di quella antica ‘Giudeca’, o loro discendenti, e in essi Francesco Antonio rivide quel fervore, quella passione, quei modi semplici e ripetitivi di quelle comunità che i suoi avi avevano raccontato nei loro diari. Essi erano in prevalenza sarti, conciatori di pelli, calzolai, lattonieri e piccoli proprietari che si rifornivano delle sue preziose merci. A questi amici ebrei del rione Timpone di Nicastro Francesco Antonio concedeva sempre la dilazione dei pagamenti; portava loro le merci e ne accettava il pagamento soltanto quando essi avevano la possibilità di pagarlo. Le persone frequentate da Francesco Antonio Funaro erano quanto rimaneva dell’antica Judeca: non più un’aggregazione, ma poche famiglie, le quali, anche se ‘contaminate’ obbligatoriamente dalla società e dalla Chiesa cattolica, conservavano ancora un barlume ancestrale di quei sentimenti di vita e di dignità che avevano caratterizzato i loro antenati”. La vicenda della Judeca del rione Timpone – conclude Funaro - è vera, non è una tradizione inventata. E la presenza di una antica colonia ebraica in Nicastro non è motivo di ‘vergogna’. È una storia che è veramente esistita e che oggi può servire e far crescere il valore della città. La presenza degli ebrei nel Timpone di Nicastro, come anche a Sambiase (nei rioni Miraglia, via Cittadella e piazzetta Santa Sofia) dovrebbe essere degna della nostra memoria, dovrebbe insegnarci di chi potremmo essere figli. Sulla testimonianza di Pasquale Funaro (pubblicata in sintesi anche su “Il Lametino” n. 148, 2010) è intervenuto, nel numero successivo della stessa rivista, il saggista prof. Luigi Saladino con considerazioni importanti legate anche a ricordi personali. Ecco il testo: “Una comunità ebraica al rione Timpone è risorsa e ricchezza aggiunta per la città di Lamezia Terme e meta dell’ebraismo internazionale alla ricerca costante della propria memoria e delle proprie radici. È da ritenere che la testimonianza di Pasquale Funaro possa mettere la parola fine ad una strana e assai discutibile querelle sollevata da alcuni in ordine alle ricerche del prof. Vincenzo Villella che ha individuato testimonianze storiche e memorie di una significativa presenza ebraica nel rione Timpone a partire dal XIII secolo. Ricordiamo le importanti citazioni degli storici locali Giacinto Montesanti e Pasquale Giuliani. Il primo, riferendosi al periodo normanno-svevo, scrive: Nel medesimo periodo la venuta degli Ebrei in Calabria ne portò, anche fra noi, una piccola colonia la quale pose stanza in apposito ghetto: il Timpone. Il secondo, proprio in apertura della sua opera Memorie storiche della città di Nicastro, scrive: Similmente sulla destra sponda del Canne era com’è tuttavia un agglomerato di case, ove è fama che ghetto fosse stato di ebrei; e che dal luogo sassoso e dirupato si è sempre nominato Timpone. Pasquale Funaro, con il garbo del ricercatore e dello storico che indaga i tasselli mancanti per offrire un più comprensivo quadro d’insieme, ripercorre con la memoria e ricostruisce su appunti dei suoi antenati alcuni dati certi. Egli nel suo libro La saga dei Cordero-Funaro (Avigliana 2007) nelle pagine 279-280 entra nel merito dell’esistenza della judeca di Nicastro raccontando di un suo antico ricco avo ebreo sefardita Francesco Funaro, proveniente da Livorno, il quale aveva commerciato – come il nonno omonimo ed il padre Giovanni – per circa una quindicina d’anni con la sua nave nei porti di Calabria del tempo attraccando anche a Sant’Eufemia (1586-1699). Poi si stabilì definitivamente a Sambiase dove acquistò case e terreni.
Pasquale Funaro rammenta, inoltre, che il suo antico avo con gli amici di Nicastro e di Sambiase parlava di agricoltura e del suo amore per la campagna: con gli amici di Nicastro parlava di affari, di prodotti esistenti in altri posti e che potevano interessarli, e di piccole transazioni economiche. Gli artigiani rimasti al rione Timpone – scrive - erano ex ebrei di quell’antica Giudecca, o loro discendenti, ed in essi Francesco Antonio rivide quel fervore, quella passione, quei modi semplici e ripetitivi di quelle comunità che i suoi avi avevano raccontato nei loro diari. Essi erano in prevalenza sarti, conciatori di pelli, calzolai, lattonieri che si rifornivano delle sue preziose merci. A questi amici ebrei del rione Timpone di Nicastro Francesco Antonio concedeva sempre dilazione dei pagamenti, portava loro le merci ed accettava il pagamento soltanto quando essi avevano la disponibilità di denaro. Viene così confermato autorevolmente e senza ombra di dubbio quanto affermato da Vincenzo Villella, appassionato storico lametino, che cioè il rione Timpone, anche per la sua specifica conformazione territoriale (la presenza di due torrenti Canne e Barisco favoriva i conciatori di pelli, i cordari e i tintori di panni), sia stata un’area di residenza e di lavoro produttivo di alcune famiglie e gruppi di antico ebraismo. Le tesi contrarie, quelle sostenute da Giuliana De Fazio e da Antonio Milano, riprese dal caro Vittorio Pandolfo su Storicittà del marzo 2007, pur rispettabili nel loro impianto, dimostrano una certa strana scelta d’autolimitatezza nella capacità d’indagine perché non corroborata da una visione complessiva del fenomeno storico dell’ebraismo nel Lametino ed in Calabria e delle sue problematiche specificità. Basti pensare, ad esempio, al clima terrificante messo in atto dalla Chiesa del post Concilio Tridentino, che in Calabria portò alle stragi di Guardia Piemontese contro una comunità di Valdesi, sgozzati ed impalati per un violento trionfo della fede. Molti fecero pubbliche dichiarazioni di conversione al cattolicesimo per sopravvivere, anche se intimamente ed in segreto rimasero con le loro convinzioni. A tal proposito non bisognerebbe mai scordare la grande equivocità del rapporto che la Chiesa storica ha avuto con l’ebraismo: da una parte ne ha assorbito cultura e riti riproponendoli a sua immagine e dall’altra – ad intermittenza – lo ha per lungo tempo dannato al deicidio e colpevolizzato per il sentire comune e la cultura popolare. Ora che questo lungo calvario sembra essere finito – dopo il feroce ultimo tentativo di liquidazione del popolo ebraico nei campi di sterminio nazisti, dopo l’eroico costruirsi a nazione in un difficile contesto internazionale e dopo la grande opera di riconoscimento e dignità portata a compimento nella coscienza da parte di Papa Wojtila – sarebbe bene che si fosse meno perentori e più sereni nelle valutazioni e si studiassero le pieghe degli eventi, così come fa Pasquale Funaro che porge seri e fondati argomenti di riflessione, quando propone di intendere i significati corretti dei termini Judeca (quartiere abitato da ebrei), ghetto (dimora coattiva), sinagoga (luogo per riunirsi insieme). Pasquale Funaro, inoltre, ricorda che assieme all’amico Battista Guerrese, quando studiavano a Nicastro, avevano sentito parlare da un’anziana donna, madre di Maria ‘a lupinaia, che i suoi nonni le avevano parlato di una grotta abbastanza grande nella quale gli ebrei conservavano le loro cose religiose e tenevano le loro riunioni: una grotta ai piedi del castello normanno, una sinagoga non un edificio! A tal proposito ritengo di poter rafforzare quanto detto da Pasquale Funaro con un mio personale ricordo, da collocare in quegli stessi anni. Da ragazzo abitavo in una stanza del Portone dei marmi (ex Dopolavoro) e con gli amici passavamo giornate intere a giocare lungo via Garibaldi, Santa Lucia e nel sentiero parallelo polveroso dove in pianura (oggi dietro l’ufficio postale) scorreva il fiume che si attraversava su una incerta passerella di tavole di legno: quella era la nostra giungla e di là solitamente si saliva per sentieri ripidi ed accidentati verso il Timpone. Ad un certo punto, però, ci si fermava perché sapevamo che non dovevamo andare oltre perché là c’era gente che lavorava, storceva e stendeva pelli e panni sui cespugli ad asciugare e con i gesti e la voce (se non con pietre) indicava di andare altrove. Infatti – altra certezza – è che in quella zona, a debita distanza, c’erano almeno tre stalle ed un fabbro ferraio che forgiava piccole punte di ferro che servivano per i nostri giochi di strada (‘u strumbulu). Oggi, dominante il concetto di “localismo” e di ricchezza aggiunta favorita dalle culture altre, sembra assurdo ed antistorico il sostenere che non vi siano stati ebrei al Timpone di Nicastro. Sono da rispettare e da ammirare, invece, quanti vanno alla ricerca delle loro radici, in particolar modo la rabbina Barbara Irit Aiello, americana di origine lametina, che di recente ha ricordato a Serrastretta (dove ha aperto una piccola sinagoga) la durezza dell’Inquisizione contro i suoi correligionari, costretti a convertirsi per sopravvivere, anche se poi celebravano precetti e culti di nascosto per non farsi vedere e per non essere additati, così come aveva fatto sua nonna che “prima di accendere le candele dello shabbat – il sabato di riposo ebraico – chiudeva tutte le imposte per non essere vista da nessuno”. Segnalazioni in tal senso, confortate da precisi riferimenti storici, sono anche venute da Raffaele Spada, anch’egli convinto che gli ebrei a Lamezia – come a Catanzaro e nell’intera Calabria – ci siano stati e ci siano. Oggi la tesi è ancor più semplice da dimostrare pur che si consulti un elenco telefonico dal quale possono essere sottolineati cognomi di evidente derivazione ebraica, oltre che a vie e rioni intitolati a mestieri prevalenti esercitati dagli abitanti (via Conciapelli). Per la somma delle considerazioni addotte sarebbe tutt’altro che inopportuno che l’Amministrazione comunale e gli amministratori si attivassero per rimettere a posto l’affisso esistente all’entrata del Timpone: ne guadagnerebbe la nobiltà del luogo, la civiltà storica del posto e l’attrattiva della Città per certi flussi conoscitivi. Ancora più importante, per la conferma di una presenza ebraica al Timpone, è quanto scrive il ricercatore Giovanni Saladino: “Da ricordare che il quartiere dei giudei era nel non lontano Timpone, il rione fuori le mura civiche di Neocastro a levante del torrente Canne. Riteniamo che il Timpone sia sorto per concessione di Federico II o dei primi sovrani angioini su esplicita richiesta della comunità ebraica locale, interessata a produrre e lavorare la seta in modo indisturbato. Quella sistemazione su terre demaniali doveva infatti non solo consentire di allevare i bachi in appositi locali – cosa che in una città suscitava non poca ripugnanza – ma di detenere a vario titolo i fondi agricoli per la coltura dei gelsi, giacché difficilmente si riconosceva agli ebrei la titolarità di proprietà fondiarie. Ciò spiegherebbe peraltro il ruolo del borgo poi detto Zangarona nel contiguo contado. Il Timpone deve ritenersi dunque l’esito di un privilegio reale e non un ghetto, sicché non potremmo escludervi la compresenza di maestranze salariate cristiane”.
(Per approfondimenti si rinvia a V. VILLELLA, Giudecche di Calabria, Progetto 2000, Cosenza 2014)