I primi abitanti del territorio lametino
Ancora pochi decenni addietro la preistoria della Calabria si presentava come un settore chiuso. Conoscenze superficiali e scoperte casuali, frutto della passione di pochi pionieri dell’archeologia, squarciavano solo in parte l’ampio velo che copriva quel lungo periodo di silenzio che va dal paleolitico arcaico all’età dei metalli. La ricerca archeologica preistorica muoveva ancora i primi passi quando nel 1960, durante la lavorazione di un terreno sull’altopiano di Casella di Maida, vennero alla luce degli oggetti cui nessuno avrebbe fatto caso e, quindi, sarebbero stati distrutti se non si fosse trovato sul posto il nicastrese Dario Leone, ispettore onorario alle antichità.
Si trattava di oggetti preistorici di industria litica, fino allora sconosciuti in Calabria, appartenenti a quella che gli specialisti chiamano ‘pebble culture’ (cultura dei ciottoli): sono chiamati in inglese ‘choppers’ (cioè ciottoli tagliati su una sola faccia) e ‘choppers-tools’ (cioè ciottoli bifacciali). Nel 1968 Dario Leone dava alle stampe il suo saggio intitolato ‘La Calabria nella preistoria’, premiato con la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al premio ‘Villa S. Giovanni’. Negli anni successivi sulle riviste ‘Magna Grecia’ e ‘Calabria letteraria’ pubblicava numerosi articoli sui molti reperti rinvenuti in superficie a Casella, che arricchivano continuamente la sua raccolta. Alla fine degli anni settanta li sottoponeva all’attenzione del prof. Paolo Gambassini dell’Istituto di Antropologia e Paleontologia Umana dell’Università di Siena.
Dario Leone
Riconosciuta l’importanza dell’eccezionale scoperta e individuato lo strato originale dei materiali paleolitici arcaici, il prof. Gambassini, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria, negli anni 1980-1981 avviava un’esplorazione sistematica del sito con due campagne di scavi. Contemporaneamente la stazione preistorica di Casella diveniva oggetto di alcune tesi di laurea tra cui quella di Antonio Milano sotto la guida dello stesso Gambassini. Milano e Gambassini pubblicavano insieme nel 1976 sulla ‘Rivista di Scienze Preistoriche’ il saggio Industria del Paleolitico Superiore arcaico presso S. Pietro a Maida (Catanzaro). Sulla stessa rivista nel 1982 davano ulteriori notizie sul sito di Casella Gambassini e Anna Maria Ronchitelli in un lungo articolo intitolato L’industria arcaica su ciottolo di Casella di Maida (Catanzaro). Nel periodo marzo-luglio 1984 alcuni esemplari dei ‘choppers’ di Casella venivano esposti nella mostra sui primi abitanti d’Europa allestita nel museo preistorico etnografico ‘Luigi Pigorini’ di Roma, dopo essere stata esposta al ‘Musée de l’homme’ di Parigi. Era il riconoscimento a livello internazionale dell’importanza del sito di Casella, riconosciuta come la più antica industria litica della Calabria alla quale è stata attribuita un’età tra 700.000 e 500.000 anni circa.
Nel catalogo, stampato nello stesso anno dal Ministero per i beni culturali e ambientali, il sito di Casella, indicato come complesso arcaico su ciottolo del Paleolitico inferiore, veniva così illustrato: “Raccolte di manufatti arcaici del Paleolitico inferiore nel fondo Casella in provincia di Catanzaro furono effettuate fin dagli anni sessanta da Dario Leone. L’esplorazione sistematica del giacimento, condotta nel 1980 e 1981 dall’Istituto di Antropologia e Paleontologia Umana dell’Università di Siena in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria, ha portato alla scoperta del livello di provenienza dell’industria litica e a una precisazione della serie stratigrafica. L’uomo frequentò la zona costiera non appena essa emerse in seguito ad una regressione del livello del mare, lasciando numerosi strumenti sulle sabbie grossolane di origine continentale che vennero in seguito ricoperte da diversi metri di sedimenti anch’essi sabbiosi. Processi successivi di ossidazione trasformarono quest’ultimo livello in un paleosuolo con componente argillosa. L’industria, costituita da diverse centinaia di pezzi tagliati su ciottoli di quarzo e quarzite, è caratterizzata da choppers bifacciali e unifacciali, poliedri , e strumenti su scheggia, fra i quali raschiatoi e qualche denticolato” (I primi abitanti d’Europa, De Luca editore, Roma 1984, pp. 119-121).
Dario Leone nello scavo
Nello stesso catalogo venivano illustrati sinteticamente i risultati delle campagne di scavi che avevano portato alla luce manufatti giacenti oltre tre metri sotto il piano di campagna, in un’area pianeggiante che fa parte di un’antica superficie terrazzata. Partendo dal basso verso l’alto, lo scavo attraversò quattro tipi di terreno. La fascia più profonda era costituita da ghiaie e sabbie grossolane di origine marina in ambiente costiero. Lo strato successivo era un insieme di sabbie grossolane di origine continentale. Il secondo strato era costituito di argilla rossa. Il primo strato, quello superficiale, è un terreno bruno sabbioso, che costituisce il colmo della terrazza. I reperti del Paleolitico inferiore sono stati trovati nel terzo strato, pochi centimetri sopra il deposito marino.
In base allo studio stratigrafico (ossia il susseguirsi degli strati archeologici nel terreno) fu possibile ricostruire la successione degli eventi a Casella. Lo strato più profondo (il quarto dall’alto verso il basso) dimostra che “la zona era sommersa dal mare, ma il mare era vicino, tanto che sabbie e ghiaie trasportate dalle fiumare costruivano via via una sorta di delta. Successivamente, col mare in ritiro, l’area è emersa ed è iniziato l’accumulo delle sabbie del terzo strato, sulle quali si sono insediati i primi cacciatori paleolitici. Il mare in quel momento doveva essere ancora più vicino, ma andava progressivamente ritirandosi. Il sito è poi abbandonato e ciò che resta viene sepolto da sabbie come le sottostanti per lo spessore di diversi metri. In un clima umido di tipo subtropicale questo deposito sabbioso subisce un’alterazione profonda e si forma un suolo rosso, con forte ossidazione e arricchimento in argilla degli orizzonti profondi. Possiamo oggi definirlo un ‘paleosuolo’ non più in equilibrio con il clima attuale in Calabria .[…] L’ultimo atto vede l’accumularsi sulla superficie di erosione di un nuovo sedimento, sabbioso fine. Questo, almeno in parte trasportato dal vento, copre il paleosuolo rosso e va a sua volta soggetto alla pedogenesi, alterandosi lentamente in un suolo bruno”. I manufatti venuti alla luce a Casella sono oltre 400, “considerando solo quelli riconoscibili come strumenti e quindi ad esclusione di alcune centinaia di schegge e rifiuti di lavorazione” Gli strumenti più numerosi che caratterizzano l’industria litica di Casella sono i ciottoli tagliati o ‘choppers’. “Sono anche presenti discoidi e poliedri, oltre ad una notevole proporzione di strumenti su scheggia come raschiatoi e denticolati. I ciottoli tagliati comprendono varie forme, dai tipi più semplici ad una sola serie di scheggiature (unifacciali) ai bifacciali […] fino ai latero-distali […] ed ai periferici […] che fanno prevedere l’evoluzione verso le forme amigdalari”.
Raschiatoi
La stazione di Casella dimostra l’alta antichità della presenza dell’uomo in Calabria. Scrive Dario Leone: “La mancanza assoluta di qualsiasi resto fossile non ci ha permesso ulteriori considerazioni sull’umanità del tempo e la sola tipologia degli oggetti rimane la guida più sicura per la conoscenza dell’Uomo e del periodo. E’ certo che, durante questo periodo, un nuovo tipo di Uomo, forse più progredito dello ‘Erectus’, compare in Europa, ma con arnesi che sono del tutto analoghi a quelli già usati in Africa. La mancanza di reperti fossili ci costringe a riferirci all’unica fonte certa, quella di Steinheim (Stoccarda), dove è stato trovato un cranio fossile umano che risale a circa 600.000 anni fa, periodo contemporaneo a quello della cultura calabrese. Certo gli arnesi di Casella sono fra i più antichi d’Europa e, sia in superficie che negli scavi, non si è mai rinvenuto un oggetto ben lavorato come può esserlo la classica ‘amigdala’, che comparirà anche in Calabria, ma molto più tardi. Questi antichi abitatori della nostra terra non conobbero una Calabria come noi oggi la conosciamo, ma una successione di isole dalle coste molto frastagliate e dalla vegetazione lussureggiante di tipo caldo, popolata da animali che oggi non esistono più, quali l’elefante, l’ippopotamo, il rinoceronte, l’antilope, l’uro dalle grandi corna e, fra i predatori, la tigre dai denti a sciabola e il leone delle caverne. In questo quadro primitivo esisteva già l’uomo, anche se non sappiamo con certezza che tipo fosse. Certamente un ‘Erectus’, probabilmente di un tipo più evoluto, ma la sua industria non è molto diversa da quella dei Pitecantropi di tutto il mondo antico” (D. LEONE, I primi abitatori della Calabria, La Modernissima, Lamezia Terme 1989, p. 26).
Aggiunge Dario Leone: “A Casella, per la natura del terreno, non sono stati rinvenuti resti fossili animali o umani, ma una grande quantità di oggetti litici, quanto in nessun’altra stazione del periodo e, soprattutto, si è stabilito il livello intorno a cui cercare in Calabria altre stazioni del periodo. La stazione litica di Casella non è rimasta a lungo l’unica per la regione, come testimonianza di questi antichissimi abitatori; in altre ricerche lungo l’arco di tutto il golfo di S. Eufemia, sempre intorno al livello di 100 metri sul mare, sono riuscito ad individuare, sempre su antichi terrazzi marini, tracce di industria litica simile a quella di Casella: Pian delle Vigne, nei pressi di Falerna, Piano della Tirena, nei pressi di Nocera Terinese, dove sono iniziati scavi alla ricerca dell’omerica Temesa, e in molte altre località nei pressi di Nocera, senza citare che oggetti analoghi sono stati rinvenuti anche a Nicastro, proprio sulle colline che fronteggiano Casella”.
Concludendo, Dario Leone afferma che “intorno ai 700.000 anni fa, lungo tutto l’arco del golfo di S. Eufemia, su una successione di isole dalle coste basse e con una vegetazione molto lussureggiante, orde umane dalle caratteristiche molto simili all’Homo Erectus, ma di tipo più evoluto, come quello di Steinheim, percorsero queste spiagge, dove le femmine e i bambini si dedicavano alla ricerca di conchiglie e di mitili, mentre gli adulti si preoccupavano della caccia agli animali più grossi. La permanenza di queste genti in riva al mare, ai laghi o ai fiumi, rendeva più facile la ricerca di frutti di mare, di crostacei e di piccoli animali che vivevano in quelle zone. E’ molto difficile dire quanto durasse la permanenza di queste antiche orde nella regione; certamente è durata parecchie decine di millenni, almeno fin quando durò il caldo sole dell’interglaciale Mindel/Riss. Poi intervenne un fattore di portata incalcolabile, una nuova glaciazione, quella di Riss, che spazzò forse da queste isolette qualsiasi forma di vita umana. Ed è per questa ragione che varie culture antiche della regione scompaiono; fatto che segna la fine del paleolitico arcaico in Calabria”.
Asce
A Casella sono stati rinvenuti in superficie anche oggetti litici di un’industria risalente al Paleolitico Superiore, databile intorno a 35.000 anni fa. Si tratta di alcune centinaia di strumenti in selce, quarzo e diaspro, comprendenti in gran parte raschiatoi e denticolati nonché alcuni bulini, pezzi scagliati e un certo numero di grattatoi corti. Il Paleolitico Superiore (35.000-10.000 anni fa) vide la comparsa e la diffusione dell’Homo Sapiens. L’economia era basata ancora sulla caccia e sulla raccolta. Agli inizi degli anni settanta A. J. Ammerman individuava nella piana di Curinga i resti di alcuni abitati del periodo neolitico (databile tra la fine del settimo e gli inizi del terzo millennio a. C.). Si tratta di circa 40 capanne a pianta rettangolare, dotate di focolari. Nei pressi sono stati trovati materiali in ossidiana e ceramica. Nel 1992, l’area è stata oggetto di scavo da parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria e sulla duna di Acconia, venivano individuati i buchi dei pali di un insediamento di capanne preistoriche oltre che un focolare circolare, alcuni manufatti in ossidiana, ceramica impresa, accette levigate e fusaiole.
Numerosi altri reperti del neolitico sono stati rinvenuti in diverse zone del lametino: Cortale, Amato, Filadelfia, Marcellinara, Lamezia Terme, Ferolato Antico, Vena, Gimigliano, Girifalco, Nocera Terinese, Miglierina, S. Pietro Apostolo, Curinga, Martirano, Conflenti, Platania, Rocca Falluca. Anche a Casella di Maida sono stati trovati due reperti di ceramica impressa oltre che una gran quantità di manufatti in ossidiana, alcune punte di freccia e accette levigate. Sul monte Tiriolo e nelle prospicienti valli di Sovarico e Donnopetro sono stati trovati arnesi e resti di focolari primitivi e fondi di capanne neolitiche. Scrive Dario Leone: “Quanto è stato finora rinvenuto documenta con evidenza l’esistenza di un’agricoltura molto rudimentale e l’allevamento di alcuni animali. L’agricoltura, quale fonte di sostentamento delle genti che abitarono le valli di Donnopetro e di Sovarico, ai piedi del massiccio calcareo di Monte Tiriolo, è testimoniata dal ritrovamento di pestelli e trituratori, che indicano con certezza la coltivazione di cereali quali il grano, l’orzo o la spelta. Una zappa conforme, ricavata da un fusto di corna di cervo, limato e bucato alla base con un foro rettangolare attraverso il quale veniva immanicato, è un altro elemento in favore di un’agricoltura molto primitiva, come in altre parti della penisola”. Come scrive Dario Leone, la pastorizia, anche se limitata alla sola capra, dovette essere già molto in uso fra le genti neolitiche di Tiriolo dove sono stati rinvenuti alcuni denti di capra fra le ceneri di focolari preistorici. Questo animale – aggiunge Leone – non era solo considerato come una conquista di carattere economico, ma anche come l’immagine stessa della divinità, al pari di molti altri luoghi del bacino del Mediterraneo. Quindi elementi di agricoltura erano già noti in Calabria nel neolitico allorché risultavano fittamente popolate le pendici della pre-Sila (con i monti Reventino, Mancuso e Tiriolo), le falde delle Serre, il Vibonese, le valli del fiume Uncinale, del Pesipe e dell’Alessi. “A Tiriolo, oltre al fusto di cervo, un corno di capra è stato limato e appuntito per farne un punteruolo; una zanna di cinghiale e un corno di cervide furono adattati per lo stesso uso, forse per cucire pelli di animali selvatici. Come si vede, accanto all’agricoltura e all’allevamento della capra, la caccia era ancora una risorsa importante per l’economia del tempo. I fitti boschi davano ancora asilo ad una fauna numerosa e varia: cervi, caprioli, cinghiali. Invece le pianure davano asilo a mandrie di bovini selvatici di razza diversa di quelli del Paleolitico Superiore, di cui il Toro di Papasidero è la raffigurazione”.
Il toro di Papasidero