Pietre lavorate fra Pian delle Vigne e Torre Lupo
Testimonianza di una ricerca archeologica degli anni ’60
di Luciano Berti
Nelle montagne calabresi è facile rinvenire rupi e massi di quella pietra verde che i Romani chiamavano “aequipondus” perché ne fecero anche pesi per le bilance e le cosiddette “mense ponderarie”. Questa pietra, non eccessivamente dura come tutti i serpentini, si ritrova lavorata nelle chiese come fonti battesimali, stipiti di porte e finestre. Nel territorio fra Nocera Terinese e Falerna, nella zona sotto Campo d’Arata e Piano della Civita, abbiamo trovato semilavorati dei massi di questa pietra e, in particolare, un manufatto completo e intatto conservato nelle vicinanze di Campo d’Arata, nei pressi della casa e trattoria di Elio Cini in agro di Nocera Terinese. Nei paraggi abbiamo cercato di individuare altri massi lavorati o semilavorati e li abbiamo trovati al termine della stradetta che da Pian della Civita porta a Piano delle Vigne, località che i locali dicono “Scavigna”.
Luciano Berti
Si trattava di oggetti preistorici di industria litica, fino allora sconosciuti in Calabria, appartenenti a quella che gli specialisti chiamano ‘pebble culture’ (cultura dei ciottoli): sono chiamati in inglese ‘choppers’ (cioè ciottoli tagliati su una sola faccia) e ‘choppers-tools’ (cioè ciottoli bifacciali). Nel 1968 Dario Leone dava alle stampe il suo saggio intitolato ‘La Calabria nella preistoria’, premiato con la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al premio ‘Villa S. Giovanni’. Negli anni successivi sulle riviste ‘Magna Grecia’ e ‘Calabria letteraria’ pubblicava numerosi articoli sui molti reperti rinvenuti in superficie a Casella, che arricchivano continuamente la sua raccolta. Alla fine degli anni settanta li sottoponeva all’attenzione del prof. Paolo Gambassini dell’Istituto di Antropologia e Paleontologia Umana dell’Università di Siena.
Torre Lupo vista dal mare
Si nota che sul posto si sono trovati massi che si prestano alla lavorazione per ricavare quei manufatti monolitici che noi riteniamo siano “crogiuoli” ove versare il rame che esce dalla fucina, ma che potrebbero essere stati adibiti ad altra funzione. Comunque i manufatti sono dotati di aperture che fanno pensare ad una loro sistemazione in serie, uno dopo l’altro, con un certo dislivello fra ciascuno. Che cosa veniva colato dentro questi monoliti lavorati? Il fondo del monolite esternamente è fatto in modo che possa essere fatto oscillare o per lo meno piegare lateralmente. Abbiamo chiesto in giro nelle nostre plurime visite alla zona, ma nessuno sapeva qualcosa. Nella letteratura locale, antica e moderna, molti fanno riferimento alle miniere o fucine del rame a Temesa, ma sembra che le affermazioni di Strabone, Verre, Ovidio nelle loro opere circa Temesa non abbiano spinto a saperne di più. Meno male che noi siamo riusciti a disegnare e a fotografare alcuni di questi strani manufatti.
Verso il 1990, anno più anno meno, venne fatto il rialto della pista che, innestata sulla SS. 18 diramazione col tratto bivio Braccia-bivio Nocera Terinese, traversava il pianoro dove c’è Torre del Casale, superava il Fosso Malovitano su di un ponticello moderno e terminava raggiungendo la Provinciale Falerna-Castiglione-Falerna Marina in prossimità della “Villa romana” che stava venendo alla luce. A fianco dell’attuale Provinciale che scende da quel punto verso Castiglione c’è una pista, molto ripida, che andava nella stessa direzione, più o meno verso il ponte sul confinante torrente.
Crogiuolo
Sul bordo del pianoro, dove sono state costruite delle strutture abitative e agricole, si può notare in basso un grugno roccioso su cui è una struttura semilavorata che è denominata “Torre del Lupo”. Nel pendio fra il bordo del Casale e Torre del Lupo si notano molte strutture dirute di malta anche di dimensioni notevoli che ingombrano la zona chiamata “Bosco”. Che cos’erano? A noi viene sempre in mente quanto dice Strabone quando a proposito di Temesa parla del “sacello” (e del “bosco di olivastri”) eretto in ricordo di Polite, compagno di Odisseo, ucciso dai temesani.
A qualcuno è anche venuto in mente che fra “Lupo” e “Luco” il passo è breve e quella tozza costruzione sul bordo del mare si riferisse non ad un ipotetico Lupo, ma a “Lucus”, bosco sacro di olivastri posto vicino al sacello di Polite, visibile dal mare. Allora ci viene in mente che quando il demone di Polite fu sconfitto dal locrese Eutimo, olimpionico, sia stato anche distrutto il sacello e magari conservato il bosco che nereggiava dal mare sul poggio. E allora? A che epoca possono risalire quelle mastodontiche rovine? A chi meglio di noi s’intende di archeologia l’ardua sentenza.