Il monastero di S. Maria del Carrà
Intorno al 1150 veniva fondato, sul confine tra le diocesi di Nicastro e di Squillace, il grande monastero basiliano di S. Maria del Carrà. Sorgeva in mezzo all’omonima foresta, per secoli impenetrabile e completamente disabitata. Però la bellezza del paesaggio, la solitudine e il clima mite facevano di quel sito il luogo ideale per erigervi non solo eventuali solitari eremi, ma anche una grande monastero che, oltre a rispondere all’esigenza di distacco dal mondo, si imponeva come unità a dimensione urbanistico-territoriale, come vero e proprio modello di società e città perfetta, vera e propria civitas Dei.
Scriptorium medioevale
Non abbiamo notizie certe sui suoi fondatori. Secondo lo storico della chiesa calabrese Padre Francesco Russo il monastero del Carrà sarebbe stato fondato da alcuni monaci provenienti dall’altro cenobio di rito greco dei SS. Anargiri, noti anche come SS. Cosma e Damiano. Invece, secondo il Parisi lo avrebbero fondato, su un territorio ottenuto da re Guglielmo, alcuni eremiti che avevano dovuto abbandonare il loro cadente monastero di S. Maria, non lontano da Squillace, sotto la guida dell’intraprendente e pio Nicola. Divenne ben presto una grande ‘massa’ feudalmente organizzata, che sfruttava sapientemente i terreni circostanti sottoposti dai monaci a dissodamenti e prosciugamenti con la costruzione di canali. Proprio per questo i vescovi di Nicastro per ben 50 anni fecero di tutto per sottrarre al monastero i suoi ricchi possedimenti, ma non ci riuscirono mai in quanto il monastero fin dal 1166 risultava alla dipendenza diretta della Santa Sede. Il monastero del Carrà, il più prestigioso tra i monasteri basiliani di Calabria, divenne famoso soprattutto per il suo scriptorium dove furono copiati da esperti amanuensi diversi codici, tra cui il Vaticano 2001 e il Vaticano 2221. Notizie importanti sulla biblioteca e sull’archivio del monastero le troviamo nel resoconto della visita compiuta nei monasteri greci della regione tra il 1457 e il 1458, su mandato del papa Callisto III (1455-1458), dal visitatore apostolico Atanasio Calceopulo, archimandrita di Santa Maria del Patire, insieme a Macario, archimandrita di San Bartolomeo di Trigonia.
Codice medioevale
Nella biblioteca, secondo la relazione dei due visitatori, c’era una grande quantità di preziosi volumi miniati tra cui un Evangelario, scritto ‘licteris aureis in cartis rubeis’ (in caratteri dorati su carta rossa), più ricco del celeberrimo codice purpureo della cattedrale di Rossano. C’erano ancora tanti altri manoscritti greci patristici, ascetici, agiografici, libri liturgici che non si sa dove siano andati a finire, ad eccezione dei pochi che si conservano nella Biblioteca Vaticana. Tra di essi vi erano anche un trattato di medicina e uno di diritto canonico, l’unico posseduto dai monasteri basiliani calabresi in quel tempo. Dove sono andate a finire queste opere? Da una lettera del cardinale Sirleto, che era diventato commendatario del monastero nel 1569, con una rendita annua di ben mille ducati, inviata al vescovo di Isola Capo Rizzuto il 13 gennaio 1570, si ricava che diverse opere, manoscritti e documenti del monastero erano finiti in mano a questo vescovo. Ma, certamente la maggior parte delle preziose opere del monastero del Carrà andarono a finire in Vaticano. Come? Nel 1547 il cardinale Marcello Cervini (già vescovo di Nicastro e poi Papa col nome di Marcello II), di cui Guglielmo Sirleto era segretario particolare al Concilio di Trento, fu nominato bibliotecario della Vaticana. Nella gestione della Biblioteca Vaticana, ritenne opportuno servirsi di Guglielmo Sirleto il quale cominciò a comprare libri, allacciando relazioni con le altre biblioteche e sostenendo anche iniziative editoriali.
Il 13 gennaio 1554 papa Giulio III volle premiare il grande lavoro svolto dal Sirleto nominandolo “custode” della Biblioteca Apostolica Vaticana. Fu proprio in quegli anni che fu accentuata la raccolta dei codici greci e latini in tutta l’Italia meridionale. Infatti, il papa Giulio III, con un suo breve del 24 febbraio 1553, ordinava di visitare i monasteri greci della Calabria e della Sicilia, di asportare tutti i codici e i manoscritti sia sacri che profani e di inviarli a Roma. Iniziava la grande diaspora del patrimonio librario medievale calabrese. Furono spediti nelle badìe di Calabria e Sicilia persone di fiducia che in poco tempo asportarono tutte quelle opere che erano sfuggite alle precedenti requisizioni. Fu il colpo definitivo inferto al patrimonio librario dei centri basiliani, grazie anche al fatto che dal 4 marzo 1566 il Sirleto era stato nominato “visitatore e correttore dei monaci basiliani di Basilicata, Calabria e Sicilia”. In questo modo il monastero del Carrà che, posto in mezzo a quelli benedettini di S. Eufemia e della SS. Trinità di Mileto, a quello certosino di Serra S. Bruno e a quello cistercense di S. Maria di Corazzo, non aveva potuto resistere a lungo al processo di latinizzazione promosso dai normanni, perdendo la sua identità culturale e spirituale greca in mezzo ad una realtà ormai completamente latinizzata, si avviò definitivamente al declino.
Codice medioevale
Già nel 1551, in occasione di una ispezione da parte di altri due visitatori apostolici inviati dal papa Giulio III, il monastero risultava in stato di quasi completo abbandono. Intorno pascolavano alcune mucche e dei porci guardati da alcuni pastori i quali riferirono ai visitatori che da tempo l’abate non risiedeva più nel monastero del Carrà, ma in quello di S. Adriano e che anche i due cappellani, per timore dei ladri, erano andati via. Quindi, dal 1458 al 1551, poco meno di un secolo, il monastero non esisteva praticamente più. Lo abbatté definitivamente il terremoto del 1783 e l’anno dopo, con l’istituzione della Cassa Sacra i suoi beni furono messi all’asta, mentre il suo territorio divenne oggetto di contese tra le università di Maida, Cortale e Caraffa e tra i vescovi di Nicastro e Squillace. Il fatto che nella Biblioteca Vaticana quelle opere siano state salvate dai continui disastri subiti dalla Calabria è un fatto preterintenzionale, accidentale, che non giustifica la sottrazione delle fonti della cultura e della propria storia alla regione. Aggiungiamo che contribuì alla distruzione delle biblioteche monastiche calabresi anche il fatto che il re di Spagna Filippo II in quegli anni aveva fondato a Madrid la biblioteca di El Escorial e pretendeva, come sovrano dell’Italia meridionale, di esercitare la prelazione sui codici greci e latini, ricorrendo sia all’acquisto, sia sollecitando donativi.
Per approfondimenti sul monastero del Carrà si rinvia a: Vincenzo Villella, Scheria, la terra dei Feaci. La piana lametina dalla protostoria alla modernità, STAMPA SUD, Lamezia Terme 2004.