La storia di Panedigrano
Esattamente 200 anni fa, in piena epoca napoleonica, si verificarono in Europa alcuni grandi eventi storici che, sebbene lontani, avrebbero condizionato profondamente le sorti del Regno di Na-poli e, quindi, della Calabria. In particolare il 14 giugno 1800 a Marengo Napoleone, con un’armata di 60mila uomini, scon-figgeva gli Austriaci e i loro alleati della cosiddetta 2^ coalizione antifrancese (dopo quella del 1793). Il 9 febbraio 1801 fu firmata la pace di Lunéville che ratificò il nuovo assetto europeo. La Francia estendeva il suo territorio oltre i confini nazionali: entravano nella sua orbita il Belgio e la Svizzera. I territori francesi si accrescevano anche in Italia. Piemonte e Liguria, dapprima occupati militarmente, vennero annessi alla Francia. Sui resti delle repubbliche ligure e cisalpina si formava quella che nel 1802 fu denominata repubblica italiana, con una costituzione modellata su quella francese, la cui presidenza fu assunta personalmente dal Bonaparte. Contemporaneamente Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, sconfiggeva le truppe borboni-che napoletane impegnate contro i francesi nel Lazio e in Toscana, entrando vincitore a Firenze il 20 gennaio 1801.
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Questo il significato della battaglia. Maida fu un evento importante, soprattutto per le conseguenze che ebbe nel caratterizzare i successivi lunghi anni di occupazione della Calabria da parte delle truppe napoleoniche, il cosiddetto decennio francese, iniziato il 1806 e terminato nel 1815 con la fucilazione a Pizzo di Gioacchino Murat. Ecco perché il nostro convegno ha per tema “Il fronte mediterraneo nell’età napoleonica: la Calabria 1792-1815 e la battaglia di Maida”. Il fronte mediterraneo fu uno degli epicentri dello scontro tra Francia rivoluzionaria e Inghilterra e vide svolgersi alcune delle battaglie che segnarono le sorti dell’incontro o misero in luce il dramma di una rivoluzione che vide schierarsi contro i suoi valori e le sue bandiere intere popolazioni accomunate dal rifiuto di ricevere la libertà sulla punta delle baionette. Ciò all’interno delle vicende politiche nelle quali la libertà era vista come alibi per giustificare un’inaccettabile conquista da parte delle armate francesi che andavano perciò respinte e cacciate con ogni mezzo. La Calabria fu protagonista di una guerriglia feroce contro i francesi di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, incarnando perfettamente la tragedia di quell’epoca tra furori rivoluzionari e l’ira della controrivoluzione. I francesi, più che truppa di liberazione si dimostrarono truppa di occupazione. Saccheggi, incendi, requisizioni, stupri, profanazioni delle chiese ed altri mezzi brutali costituivano dei veri e propri insulti per la popolazione calabrese che scelse la strada del brigantaggio.
Regina Carolina
L' La successiva pace di Firenze (28 marzo 1801) pose fine alla guerra con il re di Napoli Ferdi-nando IV, il cui esercito dovette sgombrare Roma e aprire i porti di Brindisi e di Otranto alle truppe francesi. Ferdinando IV, che era fuggito i Sicilia nel dicembre 1798 in seguito alla proclamazione della repubblica napoletana, rientrò a Napoli nel giungo 1802, seguito, dopo due mesi, dalla regina Caro-lina. Ma fu un ritorno fugace e la Corte cominciò a vivere notti insonni per il pericolo costante di una nuova occupazione francese. Proprio per questo i ministri Elliot ed Acton cominciarono ad organiz-zare una mobilitazione antifrancese, soprattutto in Calabria, facendo affidamento sulla fedeltà bor-bonica dei Calabresi, ampiamente dimostrata durante la crociata sanfedista del cardinale Ruffo (1799). Si calcolava di poter contare su 90-100mila uomini. Passarono però circa due anni prima che venisse disposto il reclutamento effettivo degli uomini e delle cosiddette ‘masse’. Nel mese di agosto del 1805 veniva formata la terza coalizione contro la Francia (dopo quelle del 1793 e del 1799). Era promossa e finanziata dal governo inglese e vi partecipò, oltre all’Inghilterra, all’Austria e alla Russia, anche il Regno di Napoli, venendo meno al trattato di pace di Firenze. L’alleanza del piccolo regno borbonico con le due grandi potenze europee era dovuto al fatto che il regno di Napoli aveva una posizione strategica nel Mediterraneo. Considerata però la scarsa affida-bilità dell’esercito borbonico, si decise di affiancare ad esso contingenti inglesi e russi: furono dirot-tati a Napoli circa 14mila soldati russi, 6 mila inglesi e 2mila montenegrini. Napoleone, che era stato incoronato re d’Italia a Milano il 26 maggio 1805, il 2 ottobre sconfisse l’esercito austriaco nella grande battaglia di Ulma e poi il 2 dicembre sbaragliò le truppe congiunte austro-russe nella celebre battaglia di Austerlitz (detta dei tre imperatori, per la presenza sul campo di battaglia dello zar Alessandro I, di Francesco II imperatore d’Austria e di Napoleone imperatore dei francesi).
Il 26 dicembre fu firmata la pace di Presburgo che fece precipitare le sorti del Regno di Napoli. Infatti, il 27 dicembre Napoleone emanò il celebre proclama di Schonbrunn che sanciva la detro-nizzazione dei Borboni di Napoli. Il re Ferdinando e la regina fuggirono nuovamente in Sicilia. Lo stesso re, prima di essere dichiarato detronizzato, aveva provveduto con un real decreto a rendere operativo il piano di Elliot e Acton, ordinando il reclutamento di ogni uomo dai 20 ai 40 anni “purché alto sei palmi e un’oncia. Misurato scalzo”. Fu deciso, inoltre, di formare dei “corpi volanti” armati di volontari e se ne diede l’incarico a personaggi di provata fede borbonica, i quali “nelle passate calamità del Regno si erano dimostrati difensori del proprio Sovrano e della Patria”. Tra questi personaggi (come il preside della provincia di Cosenza De Riseis-Simone, Agostino Fascetti, Raffaele Falsetti, Vincenzo Campagna, Antonio De Settis, Michele Artusi, Domenico Manti) un ruolo determinante di primo piano ebbe, come leggiamo in un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli, “il celebre malfattore Panedigrano il di cui vero nome è Nicola Gualtieri […]. Egli è stato chiamato in Corte per sollecitare la reclutazione nelle Calabrie e far la leva a massa”. Panedigrano era stato nel 1799 uno dei principali protagonisti della marcia della Santa Fede a fianco del cardinale Ruffo. La sua figura non è stata però messa in luce dalla storiografia sul sanfe-dismo e le insorgenze antifrancesi in Calabria. Anche la letteratura ha avvolto nella leggenda il fa-migerato Michele Pezza da Itri (detto Fra’ Diavolo) che, come risulta dalle fonti archivistiche, non ha avuto il ruolo militare, istituzionalmente riconosciuto, di Panedigrano. La storia di Panedigrano, a leggerla nella sua interezza ha dell’incredibile. Era nato nel 1753 a Conflenti, paese del Reventino appartenente alla contea dei d’Aquino. Di oscura famiglia, faceva da ragazzo il guardiano di porci alle dipendenze del proprietario terriero don Francesco Calabria per il quale lavoravano come coloni i genitori. Era però insofferente alla schiavitù e perciò abbandonò presto i porcili e imparò il mestiere di “sartore”. Lavorava panni di “arbascio” (orbace) e di ginestra in un basso della casa paterna, vivendo onestamente. Senonché un individuo imparentato con i suoi ex padroni attentò all’onore della sorella. Scattò in lui la molla della vendetta. Assassinato lo stupratore, per sfuggire alla giustizia si diede alla macchia nella campagne del Reventino insieme ad altri ribaldi e fuoriusciti. Dopo u paio d’anni venne catturato e rinchiuso prima nelle carceri di Catanzaro e poi in quelle di Cosenza da dove riuscì ad evadere. Continuò an-cora a vivere alla macchia nelle boscaglie del Reventino ove montanari e pastori gli offrivano rico-vero.
Regina Carolina e Re Ferdinando
Ma, quando il re di Napoli Ferdinando IV, impegnato nel 1798 a difendere Roma dai francesi, promise l’indulto ai fuoriusciti che volevano arruolarsi nell’esercito borbonico, Panedigrano ne trasse immediatamente profitto. Ottenne il condono e si arruolò, distinguendosi a tal punto nei combattimenti da meritarsi subito il grado di sergente. Volto però al peggio l’esito della guerra con i francesi, riparò con la corte borbonica in Sicilia appena il generale francese Championnet diede inizio all’occupazione del regno di Napoli. Quando poi nel 1799 in Sicilia prese corpo il progetto della Marcia della Santa Fede del cardinale Ruffo, Panedigrano, precedendo il cardinale, sbarcò in Calabria giungendo nel paese natio ove assoldò in breve tempo una numerosa ed efficientissima banda (dettagliatamente e nominativamente descritta nei rapporti militari francesi). Con essa Panedigrano riportava sotto gli stendardi borbonici tutti i paesi della costa tirrenica dal golfo di S. Eufemia fino a Paola. Poi raggiunse il Ruffo e partecipò alla presa di Crotone e di Altamura. Fu poi uno dei protagonisti della capitolazione della repubblica napoletana e ottenne dal re per ricompensa i gradi di Maggiore dei Reali Eserciti, una rendita annua di 40mila ducati e molti beni immobili in Calabria e in Campania (terreni, mulini, trappeti e anche una salina in territorio di Orsomarso e Verbicaro). I relativi atti notarili dei notai Pucileo e Saurini di Napoli sono conservati presso l’Archivio di Stato della stessa città. La quiete per Panedigrano, come per la corte napoletana, durò però molto poco. Infatti, come abbiamo detto all’inizio, nel dicembre 1805 fu richiamato a Napoli dove gli fu affidato, insieme ad altri capimassa, l’incarico di effettuare un altro arruolamento di truppe in Calabria per contrastare la nuova invasione francese del Regno di Napoli. Come risulta dai documenti dell’Archivio Borbone e della Segreteria di guerra, panedigrano in questa fase divenne interlocutore privilegiato della Corte. E lui e i suoi figli si distinsero per la fedeltà totale alla causa borbonica, fino al sacrificio. Infatti, il figlio diciottenne Fortunato fu massacrato barbaramente dai francesi per essere stato uno dei promotori della rivolta dei paesi del Reventino nel marzo 1806. L’altro figlio Paolo fu ucciso sulla spiaggia di Amantea mentre si batteva per evitare la capitolazione della città assediata, che era rimasta l’unica roccaforte non occupata dai francesi.
Lettera autografa della Regina Carolina a Panedigrano
E' di questo periodo la fitta corrispondenza del Maggiore Panedigrano con la regina Carolina e col principe ereditario Francesco che egli aveva scortato personalmente nella sua fuga verso la Sicilia dopo la sconfitta dell’esercito borbonico a Campotenese (6 marzo 1806). Il 4 luglio 1806 partecipò alla battaglia di Maida in cui i francesi del generale Reynier furono sbaragliati dall’esercito inglese del generale Stuart. Fu lui con le sue ‘masse’ che si pose all’inseguimento dei francesi. Il 10 luglio liberava Cosenza e, avvalendosi dei poteri conferitigli dal principe, provvide a nominare le autorità che dovevano presiedere al governo della città e della provincia. Subito dopo, a nome del re, conferiva onorificenze e gradi militari a molti benemeriti dei Borboni. Anche a suo figlio Paolo conferì i gradi di capitano. Lo storico contemporaneo L.M. Greco nei suoi Annali di Citeriore Calabria attribuiva a Panedigrano (definito “il massimo tra i capi per consenso della moltitudine, dotato di eccezionale intelligenza, coraggio e umanità”) il merito di aver evitato il saccheggio della città di Cosenza da parte delle truppe sanfediste abituate a far bottino dovunque passavano. Il 26 luglio, alla testa di 10mila uomini, Panedigrano liberò Catanzaro e inseguì i francesi verso la Lucania. Come risulta dai suoi dispacci inviati alla Corte di Palermo, le popolazioni lo accoglievano come un liberatore, mettendo a disposizione delle sue truppe vitto e alloggio. Grazie alla sua azione, tutta la Calabria fu liberata dai francesi ed egli poté attraversare trionfante la Lucania, aprendosi la strada verso Napoli, mentre fra’ Diavolo liberava la costa tirrenica. Non poté però proseguire verso la capitale del regno per la massiccia reazione dei francesi guidati dal maresciallo Massena. Rientrato in Sicilia, tentò diversi sbarchi in Calabria per portare soccorso al figlio capitano Paolo, assediato dai francesi dentro le mura di Amantea. La regina Carolina, maestra di lusinghe femminili, con lettere carezzevoli lo esortava a non desistere. Ecco qualche passo di alcune lettere più significative: “D. Nicola Gualtieri, serve questa per accusarvi i fogli scrittimi il 12 e il 20 del passato aprile con i quali avete ripetuto le vostre premure onde fosse aiutato e soccorso vostro figlio di gente e munizioni, per sostenervi contro i nemici in Calabria. Ed essendosene di già mandate a vostro figlio direttamente spero che a quest’ora egli avrà ricevuto. Non dubito che continuerà a farvi onore e di animare col suo lodevole esempio e coraggio tutti gli altri buoni popoli. Spero ora che voi personalmente e tutti i bravi fedeli calabresi sarete corso a unirvi col bravo Principe e sperando nuove prove di zelo, fedeltà e coraggio, di voi sono con vera gratitudine, vostra buona padrona Carolina. In effetti, l’instancabile Panedigrano tentò ripetuti altri sbarchi, ma ne fu sempre impedito dalle truppe francesi. La regina però continuava ad esortarlo e a incitarlo. Promettendogli riconoscenza, protezione e ricompense, faceva leva sul suo orgoglio e sul suo amor proprio oltre che sul suo attaccamento alla causa borbonica e sulla sua sete di vendetta per la morte di ben due figli ad opera dei francesi.
Ecco i passi di altre due significative lettere della regina: “Io lodo i costanti vostri sentimenti di vero fedele attaccamento al Re […]; continuate perciò con fermezza, coraggio e verace zelo a ben servire e a farvi onore e sarete certo della mia protezione” (30 luglio 1807). E ancora: “Bravo Gualtieri, non vi raffreddate, continuate a rendere utili servigi al vostro Re e Padre che sempre vi ha protetto […]. Fate vedere che i bravi calabresi hanno la stessa fedeltà […]. Continuate sempre con zelo, fedeltà e coraggio e contate che saprò riconoscere la vostra fedeltà e attaccamento” (20 agosto 1807). In effetti Panedigrano non seppe resistere agli appelli accorati della “sua buona padrona” e nel 1807 preparò un’ennesima azione di guerra in Calabria. Lo si ricava da un’altra lettera della regina del 31 luglio: “Voi mi ripetete i vostri lodevoli sentimenti di fedeltà di cui non so dubitare. Spero poi che voi, animato dal vostro coraggio e per il bene dello Stato, impiegherete sempre quanto sarà nelle vostre possibilità. Avete fatto bene di scrivere alla Segreteria di guerra di quanto sarete per fare, poiché dalla stessa riceverete le sovrane risoluzioni. Intanto vi assicuro di essere con gratitudine la vostra buona padrona Carolina”. Il destino di Panedigrano fu strettamente legato a quello della Corte borbonica nella buona e nella cattiva sorte. E così, dopo aver condiviso col re e la regina ben 9 anni di esilio in Sicilia insieme ai suoi familiari e a molti seguaci, il Maggiore Panedigrano poté rientrare nel suo paese dopo che, fucilato Gioacchino Murat (13 ottobre 1815), il re Ferdinando riprese possesso del regno. Un’ultima lettera della regina diceva: “Viva e viva veramente il fedele, bravo e zelante mio Panedigrano. Spero con l’ausilio di Dio e dei vostri fedeli servigi rivedervi a Napoli e provarvi la mia sincera ed eterna gratitudine”.
Per approfondimenti si rinvia a V. VILLELLA, I briganti del Reventino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006).