La romanizzazione
Gli archeologi hanno ipotizzato la possibilità che sui resti della città di Terina si sia sovrapposto in epoca romana un più modesto abitato allorché i romani occuparono tutta l’area dell’istmo dal golfo di S. Eufemia a quello di Squillace. Però allo stato attuale delle ricerche non si può parlare di una Lametia. Certamente la vetus civitas esisteva se è vero che essa è citata nel diploma di fondazione dell’Abbazia benedettina di S. Eufemia (1062). Conferme sono venute da ritrovamenti che hanno accertato insediamenti romani d’epoca imperiale a S. Sidero e a Palazzo, oltre che la villa di Pian delle Vigne di Falerna (I-II sec. d. C.), il complesso termale in località Mura Ellene di Acconia (II-III sec. d. C.), le sepolture coeve rinvenute nello stesso territorio, le colonne in marmo venute alla luce nella stessa area di Acconia e ora conservate nel giardino della villa Cefaly e l’altro edificio termale indicato nella Tabula Peutingeriana col nome di Aqu(a)e ang(a)e.
Il ponte di Annibale
Con la romanizzazione la piana lametina e il territorio circostante sottratti ai Brettii, sia quello a vocazione agricola e pastorale che quello coperto da boschi come il ‘Monte della pece’ noto per l’estrazione della preziosa resina, divennero ager publicus Populi Romani con successiva assegnazione di fondi ad esponenti dell’aristocrazia sia indigena che d’importazione. Il territorio lametino, come il resto della Calabria romana, si avvia verso un processo di degradazione fisica, economica, civile e culturale. Arretrano i mercati e i traffici verso l’interno del territorio. A questo contribuì anche la nascita della via Popilia, costruita verso il 132 a. C. per esigenze militari. Il suo tracciato da Nord a Sud si snodava per lo più all’interno attraverso i fondivalle, con avvicinamenti alla costa solo in corrispondenza di approdi portuali per il carico del legname che veniva ricavato dal taglio indiscriminato dei boschi. Il diboscamento selvaggio, messo in atto anche dalle popolazioni che abbandonavano la costa per arroccarsi sulle alture mettendo a coltura le alte valli, causava il dissesto oroidrogeologico e la conseguente degradazione del territorio.
Il ponte di Annibale
Inoltre, l’abbandono delle marine e della cultura del mare portò all’affermazione di una mentalità e di una economia completamente legate alla montagna: “dai prodotti alimentari ai manufatti, dai valori ai comportamenti, fino alla stessa tradizione folklorica e letteraria, tutti connessi a un esclusivo carattere montanaro e per nulla a quello marittimo, caratteri strutturali accentuatisi nel Medioevo e nell’età moderna, e che hanno fortemente condizionato, fin quasi ai nostri giorni, l’evoluzione economica, civile e culturale della regione”. La romanizzazione significò, quindi, decadenza e avvilimento dell’ager Bruttius a causa dell’incontrastato saccheggio delle sue risorse. E’ vero che nell’area lametina sorsero alcuni insediamenti produttivi, sia ville che agglomerati rurali, avvalendosi della facilità delle comunicazioni in quanto le tre principali vie (la Popilia, quella costiera e quella istmica) avevano nella piana il loro punto di confluenza. Ma resta il fatto che il territorio dell’intero comprensorio dopo l’età imperiale, durante tutto il medioevo e anche dopo era caratterizzato da una economia ancora prevalentemente silvo-pastorale. Il paesaggio, non solo sulle alture, ma anche nella piana di S. Eufemia, aveva un’impronta selvatica. Si sfruttavano le terre incolte (bosco, pascolo naturale, palude), aree che, dopo la crisi economica e demografica del periodo tardo-imperiale, si erano allargate ovunque. Queste aree rappresentavano una riserva preziosa di cibo e di materie prime. Il rapporto con gli spazi incolti era molto stretto, quotidiano e familiare per tutti. La principale attività che veniva svolta in tali spazi era l’allevamento brado del bestiame (maiali e pecore) pascolati gli uni sotto le querce (che erano anche in pianura gli alberi più diffusi), le altre nei pascoli erbosi ai margini della foresta (si pensi alla foresta del Carrà). Anche la caccia era importante così come la pesca nei fiumi e nella palude, ma pure la raccolta di prodotti spontanei (bacche, castagne, funghi). Essenziale era il taglio del legname per la costruzione delle case, per la fabbricazione degli attrezzi, per il riscaldamento, per cuocere i cibi, per le fornaci degli artigiani delle terrecotte. Dunque civiltà del bosco e dell’incolto. La società rurale di allora era fatta di boscaioli, pastori e cacciatori più che di contadini.
E la splendida civiltà della Calabria, che si identificava con le sue città greche, era perduta per sempre. La realtà suddetta trovava conferma nelle riflessioni di Strabone il quale scriveva che niente restava della precedente organizzazione comunitaria: si erano dileguati costumi e tradizioni, dialetti, e abbigliamento, si erano degradati anche gli insediamenti.
Sul tracciato dell’antica via Popilia, costruita tra il 131 ed il 121 a.c. , svetta solido, maestoso, imponente, intatto dopo più di 21 secoli, il ponte romano cosiddetto di Annibale o di S. Angelo, in agro di Scigliano, sul fiume Savuto. L’hanno attraversato per secoli eserciti, viaggiatori, pellegrini. Costruito con blocchi di tufo calcareo rosso estratto da una cava su una vicina collina, il ponte (48 metri di calpestio) è il più antico d’Italia insieme al ponte Fabbrico dell’isola Tiberina (69 a.c.).