Le Brigantesse
Le donne briganti durante l’occupazione francese della Calabria
Durante i quasi 10 anni dell’occupazione francese della Calabria (1806-1814), tutta la regione fu protagonista di una guerriglia feroce contro i soldati di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, incarnando perfettamente la tragedia di quell’epoca tra furori rivoluzionari e l’ira della controrivoluzione. I francesi, infatti, più che truppa di liberazione si dimostrarono truppa di occupazione. Saccheggi, incendi di interi paesi e villaggi, requisizioni, rastrellamenti, spedizioni punitive, processi sommari, impiccagioni, profanazioni delle chiese e altri mezzi brutali costituivano dei veri e propri insulti per la popolazione calabrese che rispose all’oppressione con la guerriglia, le imboscate e una resistenza di popolo definita dai francesi ‘brigantaggio’.
Articolo sulle brigantesse
Un ruolo importante nell’insorgenza antifrancese lo ebbero anche le donne, alcune delle quali sono state vere e proprie protagoniste, vere e proprie brigantesse. Sono state esse soprattutto le vittime principali dell’occupazione francese, subendo i danni maggiori dal punto di vista sia fisico che affettivo. A centinaia sono rimaste vedove, a centinaia hanno subito violenza. Perciò la loro presenza a fianco dei mariti e dei figli impegnati nella lotta contro gli invasori riveste un significato particolare che deve essere messo in luce. Il fenomeno, infatti, ha segnato la storia e l’immaginario collettivo del territorio calabrese e meridionale e continua a suscitare significativi dibattiti non solo sulla interpretazione, ma sul ruolo della partecipazione femminile all’interno della storia del brigantaggio presentata di solito tutta al maschile. Queste donne, mitizzate o criminalizzate, non erano solo manutengole, fiancheggiatrici, drude, amanti o ganze dei briganti, ma, specialmente alcune, hanno espresso capacità di protagonismo e di rivendicazione di dignità negata. La maggior parte delle brigantesse si dimostrarono più spietate e determinate degli uomini. Maneggiavano con disinvoltura le armi e alcune di esse furono incriminate di delitti e subirono forti condanne e anche la pena di morte.
Brigantessa: ritratto fotografico
Non possono essere documentati gli stupri, anche di donne incinte, le mutilazioni e i sequestri insieme agli incendi delle case in una caotica realtà di violenta occupazione militare cui si rispondeva con la guerriglia e le imboscate. Nessuno poteva trascrivere le notizie delle uccisioni di tante donne sia nei villaggi che nelle campagne, così come si è persa la memoria di tante stragi di ribelli nelle boscaglie e nelle montagne della regione dove infuriava la guerriglia ed era oltremodo feroce la repressione da parte delle truppe francesi. Non c’è comunque paese della Calabria in cui non si ricordi il nome di qualche donna che, spesso anche come druda di un capobrigante, si distinse nella rivolta antifrancese. E’ il caso, ad esempio, di Rachele Zaffina di Sambiase, che viene ricordata col soprannome di La Masa come druda del capobrigante Benincasa; di Coruzza Biondi (50 anni) di Dipignano, druda del capobrigante Giuseppe Mele; di Felicia De Sanctis, amante del famigerato Francesco Moscato (detto ‘u Vizzarru). Il famigerato Angelo Mancuso (detto Parafante) ne aveva due contemporaneamente, entrambe giovani, dopo aver abbandonato la moglie Caterina Golino di Serradipiro, avanzata negli anni. Una si chiamava Rosaria Arcuri (36 anni) di Serradipiro ‘donna della plebe’. L’altra Serafina Pistoia (20 anni) fu sottratta con la forza da Parafante al suo collega brigante Schermezza che l’aveva rapita appena diciassettenne nella casa del padre che era una massaro di Magisano. Entrambe presero parte attiva alle azioni delittuose del brigante finché furono catturate da una colonna di civici nei pressi di Tiriolo insieme ad altri otto briganti e al fratello di Parafante Pasquale Mancuso che era prete. Furono portati a Cosenza davanti al generale Manhès che ne ordinò l’immediata impiccagione senza il giudizio della Commissione militare.
Un’importante traccia per una storia della partecipazione delle donne calabresi all’insorgenza è quella che emerge dallo spoglio delle carte processuali della Commissione Militare francese di Cosenza. Ad Acri fu condannata a morte con sentenza del 22 dicembre 1806 Maria Branco (60 anni) accusata di essere stata l’ispiratrice del massacro dei cittadini filofrancesi e di aver incoraggiato i rivoltosi girando per le vie del paese al grido di “carne, carne”. Nella rivolta acrese si distinsero anche Rosa Mollo (42 anni), detta Tarantella, Giovanna Gallo (25 anni) e Domenica Algieri (40 anni), sottoposte per questo a sorveglianza speciale. A Donnici Sottani era proprio una donna coraggiosa, Maria De Grazia di 45 anni, a mantenere i collegamenti con i briganti e a rifornirli di viveri. A Belmonte Caterina de Mundo fu condannata al carcere a vita con l’accusa di aver preso le armi contro le truppe francesi e di aver incitato il popolo alla rivolta. Stessa imputazione per le compaesane Giovanna Verra, Anna Marano (40 anni) e Antonia Ruggiero (52 anni) vedova di Domenico de Luca.
Nella vicina Amantea, nei giorni del lungo assedio, oltre ad Elisabetta de Noto che guidava la difesa a fianco del Mirabelli, esercitarono un’incessante opera di incitamento Maria di Guido, Domenica di Mundo, Saveria e Rosa Pietramala. A S. Lucido si distinse Isabella Gagliardi. Fu processata dai francesi anche per aver esternato la sua gioia mentre si stavano approssimando al lido alcune barche provenienti dalla Sicilia, nelle quali ci dovevano essere dei suoi congiunti che dovevano vendicare il sangue di altri suoi parenti uccisi dai francesi. Una donna di Dipignano, Saveria Guida (49 anni), fu condannata a 6 anni di reclusione nella “penitenza di Napoli” per aver fatto parte della banda di Giuseppe Mele ad Amantea. Della banda del brigante Mele facevano parte altre due donne di Dipignano, Arcangela e Caterina Corrado (madre e figlia), condannate a 20 anni di ferri. A Cropalati Lucrezia Federico (38 anni), vestita da uomo e armata, era sempre a fianco del marito Giuseppe Marino impegnato nella guerriglia nei boschi. Accusata anche di aver derubato dei preziosi di cui era adornata la statua della Madonna del paese, fu condannata a morte. Una ragazza dello stesso paese, Concetta Russo (18 anni), si era messa al seguito del capobrigante Vincenzo Pallucci. Condannata a morte anche Maria Rosa Boccuto (40 anni) di Calopezzati per aver seguito il brigante Coremme e aver inalberato una bandiera rivoluzionaria nel mese di maggio 1807. Due donne di Martirano, Girolima Folino e Rosaria Marino, facevano parte dei seguaci del capobrigante Giacomo Orsi.
Brigantessa: ritratto fotografico
Accusate di collusione con i briganti, di propaganda antifrancese e di detenzione abusiva di armi erano Rosa Cervino (36 anni) di Papasidero, Girolima Folino (34 anni) di Conflenti, Rachele Senise (20 anni) di S. Nicola Arcella, Maria Buscia (26 anni) di S. Demetrio, Aurelia Fragale (50 anni) di Diamante, Teresa Mauro di Mangone, Antonia Vitelli di Scalzati, Caterina Carbone (40 anni) di Cellara, Rosalba Galtieri (52 anni) di Pedivigliano, accusata quest’ultima anche di aver istigato il fratello a farsi brigante alla macchia. Rosa Scarpello (26 anni) e Serafina Caruso (24 anni) di Celico furono condannate a morte per aver protetto e ospitato il capobrigante Vincenzo Altimari. Maria Rosaria Pisano (36 anni) di Spezzano Piccolo fu condannata a 16 anni di carcere con l’accusa di avere rapporti con i briganti e di averne ospitati alcuni nella sua casa. Una nobildonna di Diamante, Isabella Ordine (60 anni), fu accusata di complicità per aver favorito la fuga del capobrigante Necco, con cui aveva stretta corrispondenza il proprio congiunto Gaetano Ordine (37 anni), ufficiale militare. Accusate di manutengolismo e di essere informatrici dei briganti furono anche Barbara Contaiso di Cortale e Anna Migliaccio di Tiriolo, Maddalena Siruffo (61 anni) di Papasidero, imputata anche di aver costretto la figlia Lorena a seguire il capomassa Francesco Vena, detto Gerardella, e Fedela Vacca (30 anni) di Papasidero, accusata anche di aver costretto il figlio Angelo Lamarca ad unirsi ai briganti. A Serrastretta facevano parte delle bande dei propri congiunti, che tenevano imboscate ai francesi, quattro donne imparentate tra loro: Innocenza Gallo, Smeralda Gallo, Francesca Mancuso e Palma Mancuso. A Gizzeria si distinse Elisabetta Sauro, druda del brigante Antonio Pice di Falerna. Durante la settimana santa del 1810 fu sorpresa insieme al brigante Rubino mentre portava viveri e dolci pasquali al Pice. Arrestati entrambi dai gendarmi del locale comando francese, furono fucilati e, “spaccati ciascuno a metà, furono appesi a quattro alberi di olivo, allo spettacolo dei passanti”.
Per saperne di più si rinvia al libro di V. Villella “I briganti del Reventino” (Rubbettino 2006).